martedì 29 dicembre 2015

05 Una visione più equilibrata della missione scolastica


Dunque una scuola che prepari all'utilizzo dei social media, che alleni alla concentrazione e all'individuazione di obiettivi precisi, che insegni i trucchi, le trappole, le vie secondarie di un mondo che di sicuro è a esclusivo accesso dei nostri alunni e non più nostro, e tuttavia di un mondo che non può che svolgersi secondo direttrici che sono già ben note a noi anziani, o “immigrati”, e che quindi devono fondare in quella materia Umana su cui tutti i cambiamenti e le rivoluzioni hanno già fondato in passato, non si capisce perché questa volta dovrebbe essere diverso.
Qui Howard Rheingold, critico letterario, sociologo e saggista statunitense, specializzato sulle implicazioni culturali, sociali e politiche dei nuovi media, secondo me cade in un errore “storico” che per un europeo sarebbe imperdonabile: egli sostiene che il mondo cambia, e con esso cambiano i pericoli e le sfide che ci si parano di fronte. “I nostri nonni”, afferma, “non avevano da porre attenzione al traffico, abilità che invece oggi è necessaria a tutti”. Innanzitutto, ecco di nuovo un errore di traiettoria che secondo me è fondamentale, cioè continuare a non porsi il problema di come estendere alle fasce più deboli tutta questa abbondanza di abilità e capacità: non ritengo sia accettabile concentrare la maggior parte degli sforzi sullo sfruttamento massimo del nascente sistema uomo-macchina (ormai non più esclusiva occidentale), tematica assolutamente determinante per il futuro dell'uomo, ma che viene poi posta in modo del tutto coercitiva affianco a quella della formazione e della crescita culturale delle nuove generazioni, diventandone - per forza di cose - maggiorente. Continuo a credere a una funzione terza, indipendente del sistema formativo.
In secondo luogo, Rheingold forse dimentica che i nostri nonni (europei) hanno avuto ben altre e per tanti versi maggiori preoccupazioni e pericoli durante la loro vita rispetto ai nostri tempi. E prima di loro le generazioni precedenti avevano problemi ancora diversi, situazioni in cui applicare, a loro modo, le proprie capacità di problem solving. Ovviamente i problemi erano numericamente inferiori, ma di sicuro enormemente più grandi e gravosi (scappare dalla peste, affrontare una belva, evitare la gogna, sopravvivere in guerra,..). Nessun dubbio che l'ampliamento del numero dei problemi abbia sviluppato nel tempo il cervello umano fino allo stadio attuale, ma - come mi sto chiedendo dall'inizio - non sono convinto che la quantità faccia qualità.


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