Dunque
una scuola che prepari all'utilizzo dei social media, che alleni alla
concentrazione e all'individuazione di obiettivi precisi, che insegni
i trucchi, le trappole, le vie secondarie di un mondo che di sicuro è
a esclusivo accesso dei nostri alunni e non più nostro, e tuttavia
di un mondo che non può che svolgersi secondo direttrici che sono
già ben note a noi anziani, o “immigrati”, e che quindi devono
fondare in quella materia Umana su cui tutti i cambiamenti e le
rivoluzioni hanno già fondato in passato, non si capisce perché
questa volta dovrebbe essere diverso.
Qui
Howard Rheingold, critico
letterario, sociologo e saggista statunitense, specializzato sulle
implicazioni culturali, sociali e politiche dei nuovi media,
secondo me cade in un errore “storico” che per un europeo sarebbe
imperdonabile: egli sostiene che il mondo cambia, e con esso cambiano
i pericoli e le sfide che ci si parano di fronte. “I nostri nonni”,
afferma, “non avevano da porre attenzione al traffico, abilità che
invece oggi è necessaria a tutti”. Innanzitutto, ecco di nuovo un
errore di traiettoria che secondo me è fondamentale, cioè
continuare a non porsi il problema di come estendere alle fasce più
deboli tutta questa abbondanza di abilità e capacità: non ritengo
sia accettabile concentrare la maggior parte degli sforzi sullo
sfruttamento massimo del nascente sistema uomo-macchina (ormai non
più esclusiva occidentale), tematica assolutamente determinante per
il futuro dell'uomo, ma che viene poi posta in modo del tutto
coercitiva affianco a quella della formazione e della crescita
culturale delle nuove generazioni, diventandone - per forza di cose -
maggiorente. Continuo a credere a una funzione terza, indipendente
del sistema formativo.
In
secondo luogo, Rheingold forse dimentica che i nostri nonni (europei)
hanno avuto ben altre e per tanti versi maggiori preoccupazioni e
pericoli durante la loro vita rispetto ai nostri tempi. E prima di
loro le generazioni precedenti avevano problemi ancora diversi,
situazioni in cui applicare, a loro modo, le proprie capacità di
problem solving. Ovviamente i problemi erano numericamente inferiori,
ma di sicuro enormemente più grandi e gravosi (scappare dalla peste,
affrontare una belva, evitare la gogna, sopravvivere in guerra,..).
Nessun dubbio che l'ampliamento del numero dei problemi abbia
sviluppato nel tempo il cervello umano fino allo stadio attuale, ma -
come mi sto chiedendo dall'inizio - non sono convinto che la quantità
faccia qualità.
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