martedì 29 dicembre 2015

03 Focus, Attenzione, Multitasking


Paola entra nel mio ufficio con in mano una pila di libri di matematica, che già da qui vedo praticamente intonsi, sebbene sia ormai Aprile. Sua madre, mia fraterna amica, mi ha pregato di darle una mano per cercare di evitare una bocciatura ormai quasi scontata. Non ha ancora posato i libri che avvolge col braccio sinistro, che con la mano destra sguaina un cellulare da 5 pollici che cinguetta di notifiche - che evidentemente non possono aspettare - e risponde a razzo a un paio di richieste e di messaggi, probabilmente inerenti la fine del mondo, o altro tema di pari importanza. Mi saluta, ma mi devo far bastare una manciata di decimi di secondo di sguardi, perché gli altri sono destinati al «cellu». A dire la verità, pur utilizzando il T9 su un touchscreen a velocità stratosferica, riesce a completare alcune parole anche senza guardare, dato che si è accorta che un minimo di attenzione mi spetta. Questo continua anche quando iniziamo a parlare di Matematica, per cui dopo pochi minuti sono costretto al solito editto bulgaro da immigrato digitale: «via il cellulare per favore!».

Su questo punto noi “immigrati“ digitali siamo assolutamente perdenti, noi che prendevamo le bacchettate dalla maestra. Non riusciamo minimamente a immaginare come si possa “porre attenzione“ a una cosa mentre se ne fa un'altra, per giunta coinvolgente come la messaggistica online. Ne facciamo un punto di educazione civica, consideriamo irrispettoso rivolgersi a una persona distrattamente mentre si dialoga (in questo caso virtualmente) con un'altra, o con dieci altre. E inoltre siamo convinti, noi immigrati, che non si potrà mai approfondire bene una delle conversazioni, perché sarà obbligatorio mantenere una certa «superficialità» se si vuole restare vigili su ognuno dei «task», siano esse conversazioni, o giochi, o programmi di studio o lavoro. Ebbene posso affermare con assoluta certezza che non c'è nessuna speranza di ovviare a questo problema, perché l'iperstimolazione, a detta degli stessi adolescenti intervistati, è intossicante: “Ti senti alla grande, sei sempre al centro dell'attenzione” dice un quindicenne agli autori di Digital Youth: the role of Media in Development (Springer, 2011).


L'accoppiata è perfetta: un adolescente che richiede continua stimolazione, meglio se più stimolazioni che si sommano e si alternano in parallelo, e la tecnologia corre sempre più onnivora verso il calcolo e la gestione parallela dei task, laddove il singolo task è quel thread infinito che, appunto, un adolescente in crescita riesce continuamente ad alimentare con le sue interazioni al limite dell'ossessivo. Ecco dunque l'apoteosi del multitasking affettivo, dell'auto-gratificazione compulsiva attraverso stimoli che in fin dei conti semplificano, “pillolizzano” il piacere. Non vorrei apparire blasfemo nel ricordare che è stato dimostrato sperimentalmente che dando a un ratto il modo di procurarsi piacere con delle somministrazioni di stimolatori chimici del piacere attivate da una levetta, il povero ratto muore di fame perché continua ininterrottamente ad azionare la levetta in un loop di libidine senza fine (anzi, con una ben drammatica fine!). Il neuroscienziato tedesco Manfred Spitzer la chiama digital dementia, e i richiami all'eccessiva superficialità di queste tipologie di contatti sociali risuonano ormai da molte parti.
Venendo alla nostra discussione, non è ancora chiaro e condiviso da tutti quanto e come questa “nuova capacità” dei ragazzi sia produttiva e quindi da supportare e sviluppare o invece da controllare. E, come abbiamo premesso all'inizio della discussione, non è chiaro se la “dementia” sta nell'usare male un senso (vogliamo chiamarlo multiattenzione?) che l'essere umano ha sempre posseduto, o se sono piuttosto le NT a promuoverne lo sviluppo, come sostiene Prensky.


Sono disponibile a considerare che la capacità di multitasking del cervello umano, l'abilità di passare rapidamente da un compito a un altro, sia innata, e che solo la sua stimolazione la renda più viva e riconoscibile nei comportamenti dei giovani. Ma anche facendo questa scommessa in un campo a me sconosciuto, quello del cognitivismo evolutivo, mi sento più vicino alle affermazioni del cognitivista Nicholas Carr che afferma (“The Shallows: What the Internet is doing to our brains?” - W. W. Norton & Company, 2010) che “il problema non è quello che fanno i ragazzi in rete, ma è la massa di stimolazioni e di informazioni che li invadono in ogni momento. Il nostro cervello cambia e prende forma nei primi venti anni di vita, per costruire quella circuiteria fondamentale che ci porteremo appresso per tutta la vita, ecco che questi comportamenti hanno effetti molto più forti sulle giovani generazioni”. Bingo. Come si può affannosamente rincorrere dei cervelli che con velocità mirabolanti si adattano ai cambiamenti in modo quasi etereo, informe, senza preoccuparsi appunto di “formare”, di localizzare, formalizzare e trasmettere alle nuove generazioni le caratteristiche del un nucleo più denso di abilità di base, di capacità dialettiche, di idee fondamentali del calcolo della “carrozzeria” di quel veicolo chiamato Uomo?
Jordan Grafman, neuroscienziato cognitivista presso l'Istituto di Sanità degli USA: “il multitasking mentale non esiste: gli esseri umani possono porre attenzione solo a una cosa per volta; al massimo possono switchare rapidamente fra vari task, ma a caro prezzo, perché il cambio di attività spesso ci costa più sforzo mentale dell'attività stessa. E' vero che così stiamo formando in nuovi cervelli a gestire più rapidamente attività differenti, ma è altresì vero che i processi mentali delegati al pensiero profondo e alle decisioni vengono via via sempre meno esercitati e quindi sviluppati”.

Solo paure e paranoie? Prensky, seppure dopo aver dovuto correggere alcune sue esagerazioni in seguito al prolifico dibattito seguito alle sue prime pubblicazioni, dice di si. In definitiva, Prensky ritiene di essere agli albori di una nuova Etica Digitale, nascente dall'inarrestabile potenziamento mentale permesso dalle macchine. Una nuova etica che in quanto tale sta riscrivendo le definizioni di Saggezza, Cultura, Stupidità, Intelligenza. Indubbiamente sembrerebbe la suggestione più ovvia: è scientificamente dimostrato dalle neuroscienze che qualunque evento che ci capita modifica strutturalmente (cioè fisicamente) il nostro cervello, instaurando nuove connessioni, creando corto-circuiti, variando la solidità e la priorità delle connessioni stesse. Dice lo psicologo Peter Etchells: “Qualunque neuroscienziato o psicologo sa che tutto, qualsiasi cosa modifica il nostro cervello, è la base del nostro apprendimento. Dire che usare Facebook sta modificando il nostro cervello non è interessante, né sconvolgente. Il punto è andare oltre questa argomentazione e chiederci invece cosa sta succedendo, e analizzarlo in positivo o in negativo”.

A dire il vero, a questa ammorbidita visione prenskyana, supportata dall'evidenza empirica che così semplicemente ci salta agli occhi raccontandoci questo splendido e Homo Digitalis dotato di una nuova e luccicante augmented mind che tutto vede, controlla e manipola grazie alle NT, a questo coro che si alza in supporto di qualunque cosa sia 2.0, o 3.0, a questa abdicazione quasi lasciva a un destino ritenuto ineffabile, ebbene un po' sono tentato di abbandonarmi anch'io, rispolverando un po' dell'ottimismo cyberpunk dei miei anni '90. In fin dei conti, sono parecchie - e comodamente condivisibili - le valutazioni positive di questa mutazione. Mizuko Ito, antropologa californiana: “I giovani devono adattarsi fin da subito a una realtà fatta di continue distrazioni, e quindi hanno autonomamente sviluppato strategie per conviverci”. Rebecca Eynon, ricercatrice all'Università di Oxford: “Stanno solo sviluppando le loro tecniche, tante nuove tecniche. Sanno bene cosa gli sta accadendo, (...) sono flessibili nell'adattare e mischiare insieme cose diverse per ottenere ciò di cui hanno bisogno”. Nicola Yuill, capo di un progetto di ricerca in campo psicologico sul rapporto fra tecnologia e adolescenti: “La gente si spaventa del fatto che i ragazzi sembrino dipendenti, tossici, che non riescano a evitare di distrarsi. Finiremo per imporre queste preoccupazioni ai ragazzi, quando essi in effetti stanno sviluppando opportune strategie”. Strategie? Flessibilità? Stiamo parlando di ragazzi o di operai?
Ancora, Jonathan Grudin, Microsoft Research: “Le capacità essenziali nel 2020 saranno la capacità di ricercare rapidamente, sfogliare, definire il livello qualitativo di grandi masse di informazioni, e sintetizzarle per poi processarle in tempi rapidi”. Prensky, per tornare a parlare di scuola: “i docenti dovrebbero imparare a comunicare nel linguaggio, nei modi e nello stile dei loro studenti, acquisire un ritmo più veloce, fare uso di più argomentazioni, adottare il linguaggio dei videoclip e della pubblicità, quando non addirittura del videogioco”. Eh no! Ma sarà mica il caso di preparare questi ragazzi a qualcos'altro o quantomeno anche a qualcos'altro, oltre ad affrontare - essenzialmente - le nuove modalità di produzione?


Ripeto ancora che non mi sogno neanche lontanamente di limitare, stoppare o arginare queste storiche trasformazioni antropologiche, ma alcune cose sono evidenti, e non trascurabili: più tasks si hanno aperti, più (lo insegna l’informatica) le operazioni dovranno essere semplici, poco impegnative e senza spazio per gli approfondimenti. Si parla di questo, e non di aver paura di chissà quali strane malattie che affliggerebbero i nativi; si parla della preoccupazione politica di chi nota che i ragazzi hanno sempre meno tempo, e meno allenamento mentale, per poter affrontare un testo lungo, una lettura impegnativa. Senza voler per forza affermare che questo sta creando scompiglio o tragedia, sventolando a tutti i costi la supremazia di un filmato di YouTube sull’Ulisse di Joyce mi limito a sottolineare che la Scuola così facendo mutua dalla Società i suoi peggiori malversamenti: dopo aver ascoltato – senza peraltro prendere granché provvedimento – le urla di lamento delle donne del nostro tempo, che più di chiunque altro stanno pagando il dazio alla modernità con un processo di spersonalizzazione e di de-sensibilizzazione che sta modificando radicalmente i ritmi di vita delle mamme e delle casalinghe per colpa dei ritmi insensati di vita sociale e di lavoro, vogliamo forse costruire lo stesso dramma per i nostri ragazzi?


E' così evidente il tipo di umanità di cui ha bisogno il mondo produttivo da risultare quasi imbarazzante nelle parole di Grudin: “L'abilità di saper leggere un testo e ragionare intensamente su esso per ore non sarà dunque del tutto inutile, ma avrà molto meno importanza per alcuni che per altri”. Ma va'? Quindi tutta la storiella sull'incremento delle intelligenze e delle capacità, il sogno di democratizzazione e di estensione delle potenzialità umane, del miglioramento della qualità di vita e del livello culturale delle persone, della loro capacità di interagire con il mondo che le circonda...? Tutte storie, appunto. Ciò che preme a lor signori è che il più rapidamente possibile si impari a coesistere col nuovo mondo, che si sviluppino strategie mirate a conciliare - ancora di più! - la propria vita essenzialmente umana con quella sociale/lavorativa/attiva. Bisognerebbe invece lavorare perché le NT portino il libro a tutti, e non solo a quelli che - da strati più alti - manterranno la necessità di approfondire e meditare un testo. Bisogna in ogni modo cercare di “mettere in pausa” questa nostra corsa impazzita verso un progresso irriconoscibile e irriconosciuto, per attendere quelli che sono rimasti indietro e cercare di riprendere un cammino comune. E' esattamente come continuare a concentrare immani sforzi sull'innovazione - ad esempio - dei lettori mp3, preoccupandosi poco o nulla della scarsissima qualità musicale che con quei lettori viene spacciata.


Per riprendere l'esempio di Grudin, si da' per scontato che le differenze fra gli accessi e fra i livelli di estensione mentale resteranno, anzi implicitamente le si proietta anche come maggiori di oggi. E dunque come ci si prepara per affrontarle (sfruttarle?) al meglio. Un'istruzione a scopo, un'educazione che, di fronte al suo fallimento, non può far altro che prendere la faccia di un videogioco per sperare di ingannare - cerebralmente - gli alunni e fargli digerire le abilità ritenute fondamentali. Una sorta di continua caserma di addestramento, per affrontare le sfide sempre più terribili che la società ci pone di fronte e le richieste sempre più inesigibili, tanto è vero che le svolgerà una macchina, e non un essere umano! Una scuola dunque sempre più asservita e piegata alla funzione di mera produttrice di classi lavoratrici, e non già una Scuola che risponda prima alle domande perché? e cosa?, invece che rispondere sempre alla domanda come?.


Paolo Maria Ferri, docente presso l’Università Bicocca di Milano e noto osservatore del mondo dei Nativi Digitali: ”Lo stesso Howard Gardner, grande studioso dell’intelligenza e teorico delle intelligenze multiple, in un  paper del 2003 ipotizza l’esistenza di questo tipo di intelligenza tecnologica (Gardner, 2003).” Ok, ma vorrei solo poter continuare a insegnare ai ragazzi cosa è un Uomo, non è mica detto che si debbano formare e istruire solo piloti d’aereo con super-intelligenze spazio-visuali e super-aumentate; lo stesso Gardner, qui tirato un po’ troppo per la giacchetta da Ferri,ha sempre sottolineato nella sua teorizzazione delle Intelligenze Multiple, che le Intelligenze sono equivalenti, e equi-importanti. Quindi se l’incremento, l’augmentazione è davvero possibile, resterebbe da capire in che modo le NT aiutano tutte le altre intelligenze elencate da Gardner (intrapersonale, interpersonale, deduttiva, ecc…). Sta nascendo una nuova Intelligenza Digitale? Benissimo. Possiamo valutarla insieme alle altre evitando di cestinarle perché obsolete e quindi selezionare i migliori in ogni Intelligenza, no?


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