martedì 29 dicembre 2015

13 Possiedi la tua Cultura!


In sintesi, convincersi di essere sulla soglia dell’Era del SuperUomo, in grado di generare super-abilità - che a loro volta sono poi causa di instabilità, depressione, disuguaglianze - assomiglia un po’ ai miti del super-ego di altri tempi. Mi pare una modernità zoppa quella che non fa altro che concentrarsi sui primissimi in gara senza curarsi di come la stessa modernità e progresso non siano nocivi invece che supportivi per gli ultimi della fila. Non si vede ancora un possente slancio verso la democratizzazione di tanti benefici, verso il riempimento di quelle falle chiamate digital divide che ancora separano nettamente le capacità di una piccola frazione del pianeta da quelle della maggioranza. Ciò che sta accadendo non lo si potrà chiamare Progresso della Razza Umana, finché, appunto, i suoi crismi e soprattutto i suoi vantaggi non saranno redistribuiti su tutta la popolazione umana, ma questo forse è un discorso vecchio, da immigrato digitale!
Io stesso tempo fa per dare una ripassata veloce ai numeri Complessi, ho usato la pagina FaceBook di un grosso gruppo sulla Matematica, e seguendo un paio di thread su esercizi contenenti numeri Complessi ho ricapitolato tutto in poco tempo. Molto efficace, perché la forma dialogica mi ha portato a ripercorrere in modo velocissimo i miei stessi dubbi e ricordi smangiucchiati della teoria di C.
Il Recupero e la Ricostruzione Didattica vengono agevolati, velocizzati e ottimizzati, ma non potranno mai sostituire la mia conoscenza di base sulla teoria che precede i numeri C, e che mi permette di ricostruire velocemente! E' ovvio, se si parla di intuizioni numeriche di base, di subitizing, bastano due paroline messe bene e il concetto è bell'e ricostruito. Esempio: girano molti video su youtube di ragazzi che spiegano ad altri ragazzi, con linguaggi quanto più possibili semplificati e adattati, principi e teoremi di matematica, anche discretamente complicati. Va benissimo, finché però questo tipo di ricostruzione, e di "filologia" dura un tempo ristretto, necessario appunto a "ricostruire" qualcosa che invece in passato è stato, appunto, "costruito", con calma ed attenzione, grazie a un insegnamento che sia stato a suo tempo condiviso, ben compreso e assimilato.
Alzo invece un forte allarme se e quando diventa centrale questo tema della didattica 2.0, dell'alleggerimento come "traduzione nella lingua dei nativi digitali", dell'affastellamento di semplificazioni necessarie poi in sostanza a "sbarcare il lunario" intendendo con questo il minimo esercizio quotidiano richiesto a scuola (di cui si può proiettare l'immagine futura di un impiegato che per risolvere un problema che dovrebbe essere in grado comunque di risolvere da solo si affida con superficiale automaticità alle tecnologie guadagnando sicuramente tempo ma perdendo la possibilità di personalizzazione, e di sicuro spendendo molto di più in termini energetici).
Mi pare triste oltre che dannoso quando questi affanni diventano essi stesso l'inizio e la fine del percorso educativo, o quando diventano addirittura parametri da misurare per comprendere il livello qualitativo di un insegnante o di una scuola, o ancora quando si tramutano in appelli e slogan politici.
Affanni che diventano il cruccio dell'insegnante, che così semplificando si sente di sicuro molto 2.0, ma si auto-esclude egli stesso dalla possibilità di lavorare con più soddisfazione, su un rapporto educativo più profondo e costruttivo, che nel tempo vada a migliorare perché la Scuola sia in grado di svolgere la sua funzione - Migliorare - anche sugli insegnanti.
Affanni per gli allievi, che forse hanno oggi un'impressione di "facilità" e di "fattibilità" dell'impegno scolastico che non ha nulla di negativo in sé, ma che in fondo non li aiuta davvero a svilupparsi in un percorso comunque più dialogato con la scuola e con i docenti, non li prepara davvero e non li facilita quando li lancia nel mondo con piccolissime, se non inesistenti, ali per volare.
Certo, posso “migliorare”, ad esempio, il mio insegnamento della Matematica perché grazie alle NT ho anch’io un laboratorio, che prima poteva essere composto solo di quaderno e penna e al massimo di qualche invenzione con carta, forbici e costruzioni, e oggi invece è un vero e proprio tavolo di lavoro giustamente “virtuale” come lo sono le idee della teoria scientifica. E dunque un ragazzo oggi può davvero lavorare con un triangolo, muoverlo nello spazio e valutare come la teoria prende forma, ma tutto ciò non prescinde e non modifica i miei racconti su “come” l’uomo ha incontrato la forma “triangolo”, e che percorso lungo e travagliato sia la teorizzazione, la dimostrazione e la conseguente applicazione di un principio geometrico. Non si potrà avere una forma migliore per ascoltare “L’infinito” di Leopardi che non sia la voce esperta di un appassionato professore di Lettere. Né mi aiutano un granché le tecnologie a spiegare i motivi di una guerra o la storia di una religione. Certo che dovrò veicolarle attraverso i veicoli più consoni agli allievi che ho di fronte, ma qual è la novità in questo? E non è importante mantenere distaccati gli insegnamenti SULLE nuove tecnologie dagli insegnamenti CON le nuove tecnologie?
E’ senz’altro indispensabile mantenere in tutte le scuole un nucleo di insegnamenti tecnici sulle nuove competenze digitali, e conservare l’identità e l’integrità delle “altre” discipline che ovviamente hanno tutto da guadagare dall’applicazione intelligente dei nuovi supporti. Se non è possibile escludere la scuola e i suoi attori dall’uniformazione e “militarizzazione” richieste dalle nuove dinamiche economiche, che resti quantomeno lecito mantenere quello che ci hanno invidiato per tanti anni gli statunitensi, cioè un generalismo culturale – inteso nell’accezione più alta del termine - che funga da sostrato a qualunque spinta ulteriore giunga all’allievo. Ancora Franco de Anna: “Se si vuole mantenere la distinzione-indipendenza tra formazione e condizionamenti economico-produttivi il problema da affrontare non consente il semplice rifugio in un supposto “primato umanistico” ma si proietta in una capacità di immaginare e ricostruire una dimensione “onnivalente” dell’uomo”.

12 Gli Sdraiati Digitali, iperveloci nel cyberspazio, immobili nel mondo reale


Per avviarmi a una conclusione, vorrei ricordare che un uomo nuovo serve a poco senza un mondo nuovo. Ricordo con molto affetto mio padre che mi comprò – senza averne alcuna idea – un piccolo Vic20 nel 1983, consegnandomi in quel momento la chiave d’oro che avrebbe accompagnato ogni mio impiego, ogni mia attività da quel lontano 1983. Ciononostante, la cronica sindrome nefrosica che mi astia da una decina di anni è stata probabilmente causata anche da un ritmo di vita in gioventù molto poco “tradizionale”, preferendo spesso il computer alla partita di pallone, o un libro a una passeggiata con gli amici. Sono per questo diventato migliore? O peggiore? Che opportunità ho perso, e quali invece mi sono state offerte su un piatto d’argento?
Proverò ad essere ancora più chiaro: la mia preoccupazione sulla prossima generazione di “iperconnessi” è cosa si connettono a fare? Non mi interessa assolutamente la disumanizzazione in termini di rapporto mediatico, o la spersonalizzazione dovuta all’eccessiva liquidità del social-space. Non sono terrorizzato dal fatto che le macchine possano soppiantare l’uomo, né che un giorno si possano ribellare straziando le carni dell’umano oppressore. Non mi fa orrore (come invece atterrisce mia madre!) l’idea di ordinare una pizza e vedersela recapitare da un drone, magari mentre sto sdraiato venti ore al giorno in una sorta di Cocoon dal quale posso lavorare, divertirmi, interagire col mondo, comandare un’astronave, tutto senza muovere più di due-tre muscoli, trasformandomi in quello che probabilmente sarà l’uomo del XXII secolo, obeso, muscolarmente inetto, iperconnesso in qualsiasi momento, potenzialmente ubiquo, probabilmente molto spesso annoiato, più di oggi.
A me preoccupa che con tanta comodità e tecnologia, quell’Uomo2.0 spenda qualche minuto - più di oggi! - ad occuparsi dei suoi simili, o della condizione della natura che lo circonda, o dei problemi dei più deboli. Che attraverso tanti collegamenti quell’Uomo2.0 sia più informato di oggi, meno passivo rispetto alla massificazione dell’informazione, più attento e più critico, magari più incline alla solidarietà e alla pace che alla contrapposizione e alla guerra, più attento alla vita sociale e politica, e magari in grado di apportare qualcosa in più al dibattito sociale di quanto accada oggi. Ecco perché rifuggo le visioni di Prensky o di Jenkins, e non vedo nessun vantaggio per l’Umanità, mentre ne vedo tanti per l’Economia, nel fatto che i ragazzi di oggi acquisiscano tante belle nuove abilità e capacità di cui però nessuna sembra far rima con “solidarietà”, “sostenibilità”, “profondità”.
Propongo qui un interessantissimo quanto drammatico passaggio di Arturo Marcello Allega in “Analfabetismo: il punto di non ritorno” (Herald Ed. 2011), sull’effettiva portata del fenomeno in termini di alfabetismo e di istruzione:
Considerando la popolazione “non istruita” o “dealfabetizzata” come costituita da tutti coloro che non hanno completato l’obbligo scolastico (fissato entro il 16° anno di età) o che nel tempo hanno perso la propria istruzione sostanziale a causa delle diverse forme di analfabetismo di ritorno, calcoliamo la velocità di crescita di questa popolazione rispetto a quella degli “istruiti”, dal 1951 ai nostri giorni. I dati mostrano che i “non istruiti” crescono con una velocità sempre più elevata mentre gli “istruiti” crescono fino al 2001, dove invertono la loro velocità. Nel 2006 i “non istruiti” superano gli “istruiti” e i numeri lasciano sperare ben poco per questi ultimi.
(…) i dati OCSE puliti, cioè senza filtro alcuno, portavano a un 47% di “non istruiti” e al 57% degli “istruiti” nel 2011. Con il filtro prodotto dal processo di dealfabetizzazione, abbiamo visto nell’articolo “Darwin, Pareto e i dati Ocse sull’istruzione” che nel 2011 i dati si stabilizzano intorno al 66% per i primi e al 34% per i secondi, come già annunciato da Tullio De Mauro in diverse proiezioni anticipate in interviste sull’argomento. Con il calcolo delle velocità qui riportato, lo scenario di Pareto sembra scontato e inevitabile: i “non istruiti” tenderanno nel prossimo futuro all’80% e gli “istruiti” al 20%. (…) assistiamo alla comparsa di un punto di non ritorno, oltre il quale la popolazione dei “non istruiti” è destinata a costituire la maggioranza assoluta della popolazione. Positivo? Negativo? La destrutturazione dei linguaggi storici è involuzione? La moltiplicazione delle diversità (anche dei linguaggi) è foriera di innovazione, di ricchezza culturale o l’avvio di una nuova Babele? Gli “istruiti” saranno i nuovi esclusi, i nuovi dropped out?


11 I migliori saranno super-eccellenti, i peggiori super-inabili?


Abbiamo parlato fin qui di scuola e scolari tralasciando di annotare quanto la nuova era digitale stia tracciando un solco sempre meno sanabile fra chi è “in” e chi è “out”. Riprendo un passo di Prensky (riferito alle tecniche di apprendimento online): ”Tra le importanti abilità che hanno dimostrato di sviluppare ci sono la collaborazione e il lavoro in team, l’adozione di decisioni efficaci sotto stress, l’assunzione di rischi nel perseguimento degli obiettivi, l’assunzione di decisioni etiche e morali, l’impiego della deduzione scientifica, la veloce padronanza e applicazione di nuove abilità e informazioni, il pensiero laterale e strategico, la perseveranza nel risolvere i problemi difficoltosi, la comprensione e la gestione di culture e ambienti estranei, e l’amminsitrazione di aziende e persone”. Wow, praticamente dei soldati pronti per le continue Guerre Commerciali che siamo costretti a subire.
Il gaming è fantastico come modalità di apprendimento, specialmente per discipline scientifiche, ma cosa c’entra con l’istruzione e l’educazione? Il gioco non è una cosetta da niente, è la metodologia che l’uomo applica ogni volta che (aridaje) c’è da vincere! Non posso che aborrire questa visione molto americana della necessità di eccellere, di vincere, di sbaragliare e di essere superiori. Può essere legittimo decidere di formare dei cittadini più Vincenti (ci hanno provato in tanti!), ma questo non ha nulla ha che vedere col più umile, ma al contempo più critico, compito di creare semplicemente Cittadini.
Bisogna stare molto attenti a credere che un ragazzo che oggi ha 16 anni, fra 20 o 30 anni sarà un possibile buon attore della società iperdigitale solo perché oggi spippola a velocità folle sul suo palmare intrecciando rapporti con mezzo mondo anche solo per risolvere un’equazione. Essere “super utenti” di social network non equivale ad essere un genio del computer; spesso i miei alunni ammettono, e ci sono fiori di studi a confermarlo, che per loro “Internet è Facebook”, e che molto raramente si addentrano davvero nel web con spontanea curiosità in terreni non così comodi e battuti come i social network di tendenza. Si parla qui di ampiezza d’uso delle NT, di reale livello di expertise applicato attivamente alle proprie curiosità, alle proprie passioni e ai propri compiti. Un futuro di spippolatori iperconnessi non è esattamente una visione rosea, e di nuovo pone l’attenzione sull’ampiezza e la profondità che i ragazzi del futuro avranno imparato a gestire da piccoli a scuola. Oggi.

10 2040: il mondo dei Bimbiminkia


Cosa succederà? Inutile arrovellarsi, nessuno lo sa. Per questo insisto che non si debbano creare per forza dei cyber-insegnanti capaci di tradurre il mondo “arcaico” ai nativi digitali, perché tanto i nativi esploreranno il mondo a modo loro, anche se – affermo io – lo faranno meglio se avranno una minima idea della storiografia umana che li ha preceduti, le arti manuali, la filosofia, la letteratura, il calcolo e tutto il resto.
Visto che di scenari fantasmagorici ne abbiamo disponibili a iosa (cito l’ultimo, la pizza ordinata su internet e trasportata direttamente nelle tue mani da un drone), e visto che, come ho già detto, in Europa siamo molto meno terroristici e diffidenti di quanto lo siano gli americani riguardo gli inumani sviluppi delle NT, qualche voce “europea ma ombrosa” la cito volentieri: Donald Sassoon (The culture of the Europeans from 1800 to the present. HarperCollins, 2006) dice che “più libertà e più scelta per il consumatore potrebbe significare che ogni gruppo si concentrerà solo su quello che preferisce, e sperimenterà meno. Il villaggio globale può essere balcanizzato”. Marino Sinibaldi: “Che conoscenza genera, che relazioni crea (la rete)? Non c’è il rischio che l’altro, nella infinitezza delle possibilità di raggiungerlo, appaia in realtà distante e astratto, intimamente estraneo? Questo spiegherebbe il linguaggio dei social network, le sue fragilità emotive, le tentazioni aggressive”.

E dunque, che mondo stiamo costruendo per i futuri adulti del 2040? E che basi stanno essi stesso gettando per creare un mondo più unito e connesso, dotato di un nuovo senso mondialista, dando nuovo significato al termine, anzi nuovi significati. Che rete stanno davvero gettando i nostri ragazzi verso gli altri e verso l’altro in generale, quando l’unico oggetto, sorgente e obiettivo di ogni circuito “social” è – invece che un semplice “noi” – un categorico “io”? Henry Jenkins (Learning in a participatory culture, Guerini 2009) trova addirittura undici nuove abilità che emergerebbero dalla nuova era digitale: Gioco, Simulazione, Performance, Appropriazione, Multitasking, Conoscenza distribuita, Intelligenza collettiva, Giudizio, Navigazione Transmedia, Networking, Negoziazione. Non so perché ma mi continuano a suonare come sub-categorie della grande madre Produzione, e continuo a pensare che sia esimio compito della Scuola inglobare queste supposte nuove abilità proprio in quel percorso di crescita umana che ci ha portato alle stupefacenze tecnologiche di oggi, delegando loro il giusto posto in mezzo alle infinite altre abilità e sensibilità dell’uomo.

Niente ci dice che il futuro sarà così buono con i ragazzi di oggi da permettere loro di trovarsi un’oretta la sera per leggere un libro, o per fare una chiacchierata faccia a faccia con un amico, e tutto mi sembra invece suggerire di mantenere una natura che sia storicamente nostra (“stay human”), perché con essa sarà più facile e produttivo (sic!) affrontare le infinite sfide che il progresso ha ormai chiaramente in serbo per noi, ivi comprese le squassanti crisi che continueranno a imperversare negli ipermondi virtuali finanziari (sottesi ai quali resterà sempre il nostro ipo-mondo materiale dove la vita reale – mangiare, sopravvivere, curarsi – sbiadirà come una routine sempre più noiosa).


Quali speranze? Quelle che derivano dall’incomprimibilità delle giovani menti, per parafrasare un celebre principio fisico. Quando vedo ragazzi di 16-18 anni che tendono al vegetarianesimo e si interessano al mondo vegan (sicuramente un po’ per moda) perché non sopportano più la fettina di carne messa a tavola ogni sera da una analogicamente premurosa mamma, penso che la scintilla sia sempre la stessa: spingersi oltre, allontanarsi dal qui per cercare il lì, e guardare da lì quello che qui non va. Ripongo molta fiducia in questo innato senso dell’esplorazione, che di sicuro genererà gioielli di pensiero e di creatività che oggi non riusciamo neanche a immaginare; ahimé molta di meno ne ripongo negli schemi essenzialmente politici che senza curarsi di altro se non della propria sussistenza lottano ogni giorno per ingabbiare quell’esplorazione, per dirigere tanta energia e tanta spinta sempre e solo nella direzione che gli conviene di più, l’uniformazione del Consumo, la creazione di un Mondialismo Commerciale, la venerazione del Progresso Industriale.
Buttare via il giocattolo che non si sa o non si vuole usare, per inseguirne un altro. Mi sembra questo l’afflato che muove l’isterismo modernista di questi anni. Potrà questa rivoluzione risollevare i dati drammatici sulla fruizione di materiali culturali? Da una ricerca di Eurobarometro del 2013 risulta che solo il 6% degli italiani ha qualche pratica di uno strumento musicale, addirittura due punti sotto la media europea, e che l’80% degli italiani dichiara di non partecipare ad alcuna attività culturale, una percentuale superiore per decine di punti a quella di tutti gli altri Paesi membri a eccezione solo di Ungheria, Romania, Portogallo e Cipro. Sono questi i numeri da risistemare, e per farlo non servono particolari tecnologie o speciali metodi, anzi. E non ho motivo di credere che una “diversa didattica per ragazzi diversi” possa risollevare questa incresciosa situazione, anzi temo che l’isolamento, la parcellizzazione e il “digital divide” saranno i temi portanti dei prossimi anni, con una ulteriore semplificazione generalizzata delle offerte culturali e formative, buone un po’ per tutti i gusti.

09 La scuola è una grande conquista o deve attrarre clienti?


Mi permetto quindi una domanda: nessuno intende tornare ai tempi dei fagioli sotto le ginocchia o delle bacchettate sui palmi aperti, ma mi si può spiegare per quale motivo, inseguendo la decadenza, bisogna semplificare, rendere attraente, infiorettare, facilitare, addolcire i programmi con giochi, e-books, colori attraenti e lucine luminose? Perché è questa la modernizzazione che non posso appoggiare, quando essa si presenta come il genitore questuante: “Lo so che mio figlio ha preso tre, ma non c’è proprio modo di promuoverlo?”, o come il libro a figure enormi per essere più attrattivo.

Lo dico insieme a Marino Sinibaldi, attento osservatore della realtà moderna, oggi direttore di Rai Radio3 (Un millimetro più in là, Laterza 2014): “Il libro sviluppa in una forma molto peculiare due straordinari processi umani: l’immaginazione e l’immedesimazione. Faccio fatica a trovare forme di rapporto con la realtà che abbiano la stessa capacità della lettura di stimolare l’immaginazione (che è la spinta ad andare oltre i limiti di quello che ci è dato, del già visto o sentito) e di generare immedesimazione (ossia la capacità di entrare dentro un altro diverso, lontano, perfino opposto da noi)”. Per assurdo, un libro meno illustrato e facilitato non induce forse più sforzo e dunque allenamento alle capacità di immedesimazione e di immaginazione? Non rischia questo sconfinato panorama a disposizione di qualunque ragazzo abbia una connessione in rete di annullargli in pochi anni l’insieme del “non ancora dato, non ancora visto, non ancora sentito”?
L’approccio “commerciale” degli editori scolastici non è tanto più colpevole di quello esibito dagli stessi dirigenti scolastici, che oggi (in preda all’autonomia) istituiscono nelle loro scuole i corsi più disparati per poter accaparrarsi anche quell’anno il minimo di alunni per formare il minimo di classi ecc… ecc… Questo non l’ho mai capito. Le scuole italiane si fanno concorrenza anche senza essere private, si rubano gli allievi a vicenda, si studiano fra scuole vicine per capire come mai hanno preso tot iscrizioni più di noi, si arrovellano per capire come diventare più attraenti per le famiglie. In una scuola pubblica questo è per me inaccettabile, soprattutto nella misura in cui le scuole pubbliche italiane riescono a comportarsi da scuole private anche senza che lo Stato lo abbia chiesto: gli è venuto naturale! Anche qui stessa domanda: non è possibile che i presidi si possano dedicare alla qualità della loro scuola noncuranti del numero di iscrizioni? Perché un preside deve intristirsi se un ragazzo della sua città ha deciso di frequentare il vicino istituto professionale invece del suo liceo? Perché non si spezza mai il perverso legame (tipico del privato) fra compensi, numero di cattedre, numero di allievi, responsabilità, manovre di tutti i tipi per preservare questa o quella cattedra, questo o quel professore.
I più lucidi nell’analisi sono in genere quelli che da questa trasformazione sono tenuti a guadagnare, cioè gli editori: Andrea Chiaramonti, Amministratore Delegato Giunti Scuola: "Abbiamo quindi immaginato la scuola come sistema, una startup che deve essere aiutata per partire. I prodotti che mette a disposizione Microsoft possono aiutare la scuola a dialogare. Noi forniamo il registro elettronico che è un sistema di comunicazione scuola-famiglia e controllo attività". Più chiaro di così! Problemi di Marketing Scolastico? Ci pensa Microsoft! “Dal 2014 venderemo nelle scuole anche un pacchetto per gli insegnanti che comprenderà software e hardware. Un Acer V5, con pacchetto Microsoft Office 365 e la suite di programmi IES (Intel Education Software) e nostri contenuti. Tematiche per la didattica". Voilà!

08 Il triangolo Docenti-Famiglie-Allievi, la Società permea la Scuola.


Una delle cose che ho compreso lavorando a scuola è che, per quei termini di “simbiotica antitesi” fra Scuola e Società che ho illustrato prima, e seppure le distanze reciproche fra docenti, famiglie e alunni sembrano ogni volta allungarsi e restringersi istericamente, le tre componenti, come tre vertici di un triangolo, sono tutte ugualmente attori attivi e passivi, vittime e carnefici, causa ed effetto, variabili dipendenti e indipendenti della stessa funzione (visto che l’area del triangolo, cioè la densità sociale dell’istituzione scolastica, è sempre la stessa). È come quando i pedoni sbraitano a un’auto che non rispetta le strisce, salvo poi fare lo stesso quando entrano in macchina imprecando contro i pedoni.
Avrei sempre voglia di chiedere a ogni insegnante che frigna lamentandosi dei suoi allievi come vanno i suoi figli a scuola.
E ai genitori che imprecano contro i prof per ingiustizie inenarrabili nei confronti dei loro figli vorrei chiedere qualcosa di più sulla loro vita familiare, vorrei sapere quanto si confrontano davvero con i ragazzi o se piuttosto si limitino a timbrare ogni giorno il cartellino dei “Hai fatto i compiti? Questa casa non è un albergo!” eccetera.
E vorrei anche indagare meglio su quel senso di delega tout-court che i genitori assegnano alla scuola, salvo poi censurarne a suon di critiche e proteste i comportamenti, le strutture, le professionalità.
È il Triangolo Scolastico, quel turbine di interazioni reciproche, spesso violentissime, fra i tre punti nodali; è il fulcro multiposizionale che tiene continuamente in equilibrio un oggetto troppo pesante su un piccolissimo perno, con continui aggiustamenti, brusche correzioni, tutto per tenerlo, per quanto più possibile, fermo. I tre vertici sono ovviamente paritetici – anche troppo - eppure, in questo triangolo, c’è un vertice speciale, che non è discutibile, che non accetta mediazioni, un vertice che è inizio e fine della missione scolastica, anzi dirò della missione sociale. Il vertice è ovviamente quello degli aluni, che sono – per dirla moderna – i consumatori finali della Scuola, i clienti insomma. E a questi senz’altro la scuola deve rivolgersi non in senso pietoso e accomodante, con la serie di semplificazioni, agevolazioni, imboccamenti e facilitazioni di cui questa rivoluzione tecnologica sembra essere solo la copertura per celare ben altre magagne e mancanze. Bensì gli alunni, in quanto destinatari della nostra azione di insegnanti e/o di genitori, semplicemente si sono guadagnati l’aggettivo di “invariante”, o “invariabile”: cioè non si può pensare di cambiare i ragazzi con i metodi, né di poter accomodare con delle toppe quello che altrove è stato già violentemente strappato e sfilacciato.
Dunque a loro dobbiamo guardare, pensare e mirare, senza quel piagnisteo continuo che molti insegnanti – un po’ stanchi? – blaterano a ogni pié sospinto lamentandosi degli strani comportamenti (soprattutto quelli da “nativi”!) e attitudini dei loro allievi. A volte chiedo loro, provocatoriamente, se secondo loro un macellaio si lamenta della puzza di carne morta, o se un falegname impreca contro la segatura, o se un fioraio si duole del polline dei fiori. Più provocatoriamente: “perché insegni?”.


07 La situazione italiana


Parlar male della Scuola Italiana è davvero troppo facile e poco divertente. Piuttosto, in un momento così grave per la Scuola e per la Società intera, è un piacere scoprire che all’interno del corpo insegnante, ma anche fra i funzionari e i legislatori, il dibattito sulle soluzioni ai problemi è molto fitto, le posizioni sono – come sempre in Italia – molto lontane e molto energiche, e anche la sociologia della cosiddetta media education ha in Italia fior di studiosi e di appassionati. Fra i docenti per fortuna aumentano – lentamente! - i giovani, e così fra tante chiacchiere altisonanti, molti docenti fanno silenziosamente e faticosamente i loro gruppi Whatsapp con le loro classi, i blog dove postare gli esercizi, i gruppi Facebook su temi didattici e tecnici. Ci sono eccellenti esperienze on-line sia di singoli insegnanti che di gruppi; l’ultimo aggiornamento che mi pare utile segnalare è che si sta organizzando una “versione” italiana di EdModo.com, l’equivalente di Facebook per la scuola (chi arriverà prima al dominio della prossima e-school?, l’Open Source e gli insegnanti auto-organizzati oppure gli enormi Google & C. che già stanno regalando software alle scuole affinché si integrino nel gran calderone?). E anche in Italia ci sono tanti accesissimi sostenitori della spinta tecnologica alla didattica; scelgo fra questi di nuovo il prof. Paolo Maria Ferri, perché credo che in poche parole ci dia modo di capire cosa c’è in questa rivoluzione di tanto eccitante ed abbagliante da abdicare a qualsiasi forma di umanesimo nel nome di una - quasi marinettiana - fiducia sconfinata nel futuro. Al contempo, le sue cristalline convinzioni mi danno modo di mettere più in ordine tutte le mie obiezioni a riguardo!


Uno dei temi preferiti dai “futuristi” è l’eterogeneità che esisterebbe fra il mondo scolastico e il mondo in cui il ragazzo si trova effettivamente a vivere: “Il bambino (…) per andare a scuola, compie un viaggio nel tempo. Che è un po’ quello che è successo a noi quando abbiamo dovuto traghettare i nostri saperi e le nostre conoscenze dalla carta all’ambiente digitale. Questo viaggio del bambino è chiaramente un viaggio nel tempo.”
Benissimo: dunque come può un “immigrato” che ha avuto problemi a passare dalla carta al digitale aggiornarsi al punto tale da tenere il passo con gli scatenati e digitalissimi allievi? Non sarà che tutto questo gran problema di adattamento alle nuove didattiche e ai nuovi giovani sia in definitiva solo un problema di questa generazione di docenti, e quindi – in definitiva – assolutamente trascurabile rispetto al fatto che fra pochi anni il problema non esisterà più, e che invece ne esistono – di problemi – di molto più grandi e urgenti?


Ferri: “Noi abbiamo celebrato l’altro giorno il crollo del Muro di Berlino. Beh! Grossomodo è come se mio figlio dal 2009 si recasse a Berlino Est nel 1989. Nel senso che l’isomorfia tra i sistemi di rappresentazione del mondo col quale lui è a contatto, tra i sistemi di rappresentazione della conoscenza che mio figlio esperisce quotidianamente a casa non c’è più quando lui si reca in un’aula. Questo ha delle conseguenze rilevantissime”.
Assolutamente vero esimio professore ma, obietto, le conseguenze a cui si riferisce sono tutte positive per l’allievo! Capirei l’obiezione se si parlasse di una scuola Steineriana a Scampia, o di una scuola cattolica in Cina, ma mi duole constatare che – soprattutto nell’attuale frangente storico e socio-culturale in cui si trova l’Italia – è assolutamente positivo il fatto che la Scuola possa rappresentare oggi qualcosa di diverso dall’intricatissimo mondo esterno, e perché no anche di protettivo ma nel senso sociale del termine, e non didattico (“semplifichiamo”, “coloriamo”, “illuminiamo”, “usiamo le tecniche dello spettacolo, del videogame…”). Viva invece LA Scuola diversa, onorata e onorabile, “strana” perché latrice di tutto ciò che fuori si perde nella confusione! Viva una Scuola che fa trovare i ragazzi di fronte a qualcosa di strano, che forse non avranno mai più come l’oralità, il contatto fisico, la condivisione dello spazio (reale!), l’ammirazione e il rispetto non per l'insegnante per quello che sa e per quello che rappresenta!


Ancora Ferri: “Quello che dobbiamo fare è cominciare a tenere conto del fatto che per quelli che possiamo definire oggi “nativi digitali” alcuni strumenti che noi usiamo nel nostro lavoro, come la lezione frontale, stanno perdendo rilievo, perché l’apprendimento per assorbimento nei nativi digitali è qualcosa di molto meno consueto di quanto non lo sia l’apprendimento per ricerca, esplorazione e gioco.” Vero, ma cosa c’entra tutto ciò con la tecnologia? La Didattica della Ricerca esiste da decenni, e sappiamo benissimo che ogni alunno è un mondo nel quale l’insegnante deve giocoforza entrare e accomodarsi senza far troppo rumore, ma per far questo serviva la Rivoluzione Digitale?


Sarò deviato dalla mia materia, la matematica, ma la cosiddetta laboratorialità, la possibilità di applicare i ragazzi su problemi reali e farli lavorare secondo le linee del Recupero del Significato (vedi) o dell’approccio Affettivo (vedi), non è nata con il computer, né ne ha bisogno per svilupparsi. Si può lavorare tutti insieme con lavagna, penna e carta intorno a quesiti e operazioni (anche con il computer) che sviluppino le loro capacità di Problem Solving. Nessun dubbio sulle possibilità di farlo in modo iper-migliore con le NT, ma intanto gli insegnanti sanno farlo? Intendo dire con carta e penna: sono capaci di instaurare un rapporto affettivo che supporti il dialogo e la ricerca collettiva? Hanno i tempi, i modi, l’autonomia per svolgere un programma in questo modo, o devono piuttosto districarsi fra ore di 45 minuti, strutture fatiscenti e realtà sociali al limite del sopportabile?


Una sconclusionata e disordinata “corsa al tablet”, questa è l’idea italiana della Scuola 2.0, esempio classico il Registro Elettronico. Siamo talmente indietro rispetto al resto del mondo occidentale, che già nei primi paesi che affrontarono in modo più razionale e intelligente le nuove sfide si alzano voci critiche, si modificano alcuni aspetti della didattica 2.0 ritenuti troppo radicali, si reinseriscono metodologie e tipologie di materiali didattici troppo velocemente accantonate, si lavora sugli arredi, sulla formazione dei docenti, sull’idea stessa di scuola. Ci si è accorti che questa corsa sfrenata rischia di proporre ai giovani solo identità culturali in stile talent, sempre con quel “You” davanti e mai con “We”, o “Us”. Nelle scuole elementari norvegesi insegneranno agli scolari secondo le metodologie dei libri di testo russi, che si sono rivelate le migliori dopo una ricerca dell'Università norvegese di Stavanger sugli studenti che hanno studiato secondo la metodica russa. Secondo la ricerca la metodica russa si distingue per diversi compiti da quella norvegese e contribuisce ad un migliore sviluppo delle capacità di osservazione e analisi, utilizzando forme grafiche e tipologie di contenuti che sui piccoli allievi hanno infinitamente più successo di qualunque touchscreen.
Gli USA hanno invece scoperto la didattica della matematica delle scuole di Singapore, che lascia molto più spazio al ragionamento e alla deduzione. Senza tablet. Proprio dagli USA è tornato l’insegnante Corrado Poli, e da quanto è rimasto sconvolto ci ha scritto un libro, Rivoluzione a scuola. Come rendere felici e migliori insegnanti e allievi. Le differenze e le criticità che stigmatizza Poli non hanno niente a che vedere con la tecnologia o con l’informatica, bensì “con la rassegnazione dei colleghi docenti in fila per la firma di un contratto da precari e il degrado dell’edificio-capannone dove tutti si trovano ammassati, in un’afosa mattina di fine agosto (…) L’utilizzo di edifici più accoglienti e sicuri, l’abolizione delleclassi fisse, la riduzione dell’orario di lezione frontale e la proposta di un numero maggiore di attività extra-scolastiche (…) una professione che elevi l’insegnante da strumento audiovisivo a persona che porta qualcosa di sé nell’attività che svolge”. Come afferma il professor Gaetano Domenici, Università di Roma Tre: “la crescita della complessità delle ‘società tecnologicamente avanzate’ – o ‘dell’informazione’ – ha causato una diminuzione del grado di stabilità e d’impiego dei saperi trasmessi dalla scuola, ed ha accentuato il fenomeno di spaesamento che colpisce soprattutto chi è privo di quella cultura di base ormai necessaria per comprendere e partecipare consapevolmente al governo del cambiamento, sempre più rapido e continuo”.


06 Scuole e scuole


Guai a focalizzarsi soltanto sugli strumenti», avverte la professoressa Dianora Bardi, che insegna italiano e latino in un Liceo e si occupa di formazione su incarico del Ministero dell'Istruzioni. “Prima s’è fatto un gran parlare delle tecnologie, ora si parla di arredi 3.0. Il punto però è un altro:bisogna aiutare i docenti a trovare nuovi linguaggi con cui comunicare coi giovani, ai quali noi insegnanti dobbiamo rivolgerci con umiltà, scendendo dalla cattedra. Dobbiamo offrire modalità e occasioni che permettano loro di personalizzare l’apprendimento, di esprimersi liberamente, di gestire la conoscenza. Nella mia classe ho abolito persino il lavoro di gruppo perché ho capito, osservando i ragazzi e parlando con loro, che anche il lavoro di gruppo e i banchi a isola vengono vissuti come un’ulteriore suddivisione del lavoro. Allora ho cominciato a smantellare i gruppi e a mettere da parte anche i banchi: i ragazzi si sistemano come vogliono all’interno della classe, anche seduti per terra, poco importa. Io assegno loro un lavoro, do alcune indicazioni e sto lì con loro. Dopo un’ora di lavoro autonomo, facciamo il punto tutti assieme.” Di quanta tecnologia ha parlato in questo esempio la prof Bardi? Quanti soldi, quanti investimenti, quanti pc e quanti tablet servono per fare ciò che si propone in questo estratto? Praticamente zero. Certo, tutto sarà ancora più cool quando i ragazzi potranno aggiungere le meraviglie della web conference e dell’ipertesto a questo contesto, ma investimenti – veri! – nelle strutture. Scuole e scuole, insegnanti e insegnanti.
Arturo Marcello Allega su educationduepuntozero.it: “…(nella nuova scuola digitale) la valutazione non è più un’azione uno-a-uno, dell’uno verso i molti. La valutazione del percorso e del risultato è frutto di una collaborazione di tutti e a tutti visibile. La diversità nasce dalla scelta che si evolve autonomamente e liberamente lungo coordinate che definiscono la “persona competente” con unicità intrinsecamente rappresentate nel (e dal) suo percorso. Quindi la valutazione può essere collegiale con una sorta di assegnazioni al merito di ognuno fatta da una valutazione di percorso e di risultato, in parte generata da un “indice di gradimento” e dall’altra da un “indice di apprendimento disciplinare”. La valutazione disciplinare del docente si potrà infine confrontare con la valutazione del cloud.” Di nuovo provoco: servono teconologie avanzatissime per far questo? Non si parla di presupposti già oggi richiesti a un docente? E se non è così, dandogli un tablet in mano e una LIM in classe questi si trasformano? Nelle mie classi, da sempre, discuto i voti con gli alunni, chiedo suggerimenti e proposte, e infine valutiamo e decidiamo tutti insieme (ovviamente sotto la mia guida). Senza computer.
La Scuola non può tutta affannarsi a mediare contenuti alti attraverso media bassi. Che si confini il dibattito dove si elabora la pedagogia, e che si pensi invece a esternare in pubblico che – almeno alla Scuola italiana – servono muri che non crollino, stipendi meno ridicoli, revisione dei programmi ministeriali, ampliamento dell’offerta pomeridiana, perché questi sono i temi che miglioreranno davvero la Scuola, e poi in seguito saranno necessari semplicemente buoni maestri. Maestri che evitino gli eccessi di entrambe le vie, quella che vuole preservare la tradizione umanista e Scolastica, e quella dell’insegnante super-moderno, che spinge la figura di insegante in un campo quasi meramente tecnico. Maestri – anche - di un nuovo campo disciplinare, una nuova Educazione (civica) Digitale (al momento siamo sprovvisti di definizioni davvero nuove e stabili di “società digitali”, figuriamoci quanto siamo lontani da una Costituzione del Mondo Digitale che possa costituire il corpus di studio per una simile disciplina). Quindi, nel frattempo, si lasci separata l’istruzione dalla produzione, si superi questa incestuosa miscela depurandone i singoli elementi, e magari – sarà mai possibile? – una più serena, sana e affidabile Scuola saprà rispondere quando necessario anche ai richiami isterici delle aziende in crisi e delle società allo sbando.

05 Una visione più equilibrata della missione scolastica


Dunque una scuola che prepari all'utilizzo dei social media, che alleni alla concentrazione e all'individuazione di obiettivi precisi, che insegni i trucchi, le trappole, le vie secondarie di un mondo che di sicuro è a esclusivo accesso dei nostri alunni e non più nostro, e tuttavia di un mondo che non può che svolgersi secondo direttrici che sono già ben note a noi anziani, o “immigrati”, e che quindi devono fondare in quella materia Umana su cui tutti i cambiamenti e le rivoluzioni hanno già fondato in passato, non si capisce perché questa volta dovrebbe essere diverso.
Qui Howard Rheingold, critico letterario, sociologo e saggista statunitense, specializzato sulle implicazioni culturali, sociali e politiche dei nuovi media, secondo me cade in un errore “storico” che per un europeo sarebbe imperdonabile: egli sostiene che il mondo cambia, e con esso cambiano i pericoli e le sfide che ci si parano di fronte. “I nostri nonni”, afferma, “non avevano da porre attenzione al traffico, abilità che invece oggi è necessaria a tutti”. Innanzitutto, ecco di nuovo un errore di traiettoria che secondo me è fondamentale, cioè continuare a non porsi il problema di come estendere alle fasce più deboli tutta questa abbondanza di abilità e capacità: non ritengo sia accettabile concentrare la maggior parte degli sforzi sullo sfruttamento massimo del nascente sistema uomo-macchina (ormai non più esclusiva occidentale), tematica assolutamente determinante per il futuro dell'uomo, ma che viene poi posta in modo del tutto coercitiva affianco a quella della formazione e della crescita culturale delle nuove generazioni, diventandone - per forza di cose - maggiorente. Continuo a credere a una funzione terza, indipendente del sistema formativo.
In secondo luogo, Rheingold forse dimentica che i nostri nonni (europei) hanno avuto ben altre e per tanti versi maggiori preoccupazioni e pericoli durante la loro vita rispetto ai nostri tempi. E prima di loro le generazioni precedenti avevano problemi ancora diversi, situazioni in cui applicare, a loro modo, le proprie capacità di problem solving. Ovviamente i problemi erano numericamente inferiori, ma di sicuro enormemente più grandi e gravosi (scappare dalla peste, affrontare una belva, evitare la gogna, sopravvivere in guerra,..). Nessun dubbio che l'ampliamento del numero dei problemi abbia sviluppato nel tempo il cervello umano fino allo stadio attuale, ma - come mi sto chiedendo dall'inizio - non sono convinto che la quantità faccia qualità.


04 Entrare insieme nei social media


Per cercare di chiudere il gap con i nostri ipermoderni allievi, bisogna necessariamente entrare nella loro sfera CON i loro strumenti, e non ostinarsi a voler entrare NEI loro strumenti, perché non ce lo permetteranno mai (vivaddio!). Poiché è ormai assodato che l’istruzione formale è il mostro da combattere, è il vecchiume che avanza, è la conservazione illuminista, diventa molto difficile ridare all’istruzione quella priorità che merita nella vita di un nativo (ma tanto gli stessi rottamatori continuano a immaginare questa destrutturazione della scuola, un’istruzione diffusa, una decentralizzazione del core formativo verso una periferia invisibile e grigia, tutte cose nascoste sotto termini tipo “longlife learning”, “formazione diffusa”, ecc…). 

Il mondo virtuale per i nativi, dice Ferri citando Pierre Levy, “è un’estensione naturale del mondo reale” nel quale essi vivono, e che “i nativi digitali crescono, apprendono, comunicano e socializzano all’interno di questo nuovo ecosistema mediale, vivono nei media digitali, non li utilizzano semplicemente come strumento di produttività individuale e di svago, sono in simbiosi strutturale con essi”. E dunque se questo è vero i docenti devono imparare a insegnare (!) le stesse cose ma attraverso i nuovi recettori sviluppati dai nativi, ma non per questo devono modificare i contenuti o lo spessore del curricolo scolastico. 

Anche di più: dopo aver concordato su un affidabile e sostenibile centro gravitazionale dell’educazione scolastica, il loro compito deve essere quello di trasferire tale centro nel rapporto con gli allievi, nativi o meno che siano, tenendo comunque in conto che un tale lavoro di sussunzione (per dirla con un termine desueto!) non solo è necessario, ma è obbligatorio già da un bel po’, e che la sua urgenza prescinde qualunque smania di informatizzazione o di semplificazione che la si numeri 2.0, 3.0 o 10.0.


03 Focus, Attenzione, Multitasking


Paola entra nel mio ufficio con in mano una pila di libri di matematica, che già da qui vedo praticamente intonsi, sebbene sia ormai Aprile. Sua madre, mia fraterna amica, mi ha pregato di darle una mano per cercare di evitare una bocciatura ormai quasi scontata. Non ha ancora posato i libri che avvolge col braccio sinistro, che con la mano destra sguaina un cellulare da 5 pollici che cinguetta di notifiche - che evidentemente non possono aspettare - e risponde a razzo a un paio di richieste e di messaggi, probabilmente inerenti la fine del mondo, o altro tema di pari importanza. Mi saluta, ma mi devo far bastare una manciata di decimi di secondo di sguardi, perché gli altri sono destinati al «cellu». A dire la verità, pur utilizzando il T9 su un touchscreen a velocità stratosferica, riesce a completare alcune parole anche senza guardare, dato che si è accorta che un minimo di attenzione mi spetta. Questo continua anche quando iniziamo a parlare di Matematica, per cui dopo pochi minuti sono costretto al solito editto bulgaro da immigrato digitale: «via il cellulare per favore!».

Su questo punto noi “immigrati“ digitali siamo assolutamente perdenti, noi che prendevamo le bacchettate dalla maestra. Non riusciamo minimamente a immaginare come si possa “porre attenzione“ a una cosa mentre se ne fa un'altra, per giunta coinvolgente come la messaggistica online. Ne facciamo un punto di educazione civica, consideriamo irrispettoso rivolgersi a una persona distrattamente mentre si dialoga (in questo caso virtualmente) con un'altra, o con dieci altre. E inoltre siamo convinti, noi immigrati, che non si potrà mai approfondire bene una delle conversazioni, perché sarà obbligatorio mantenere una certa «superficialità» se si vuole restare vigili su ognuno dei «task», siano esse conversazioni, o giochi, o programmi di studio o lavoro. Ebbene posso affermare con assoluta certezza che non c'è nessuna speranza di ovviare a questo problema, perché l'iperstimolazione, a detta degli stessi adolescenti intervistati, è intossicante: “Ti senti alla grande, sei sempre al centro dell'attenzione” dice un quindicenne agli autori di Digital Youth: the role of Media in Development (Springer, 2011).


L'accoppiata è perfetta: un adolescente che richiede continua stimolazione, meglio se più stimolazioni che si sommano e si alternano in parallelo, e la tecnologia corre sempre più onnivora verso il calcolo e la gestione parallela dei task, laddove il singolo task è quel thread infinito che, appunto, un adolescente in crescita riesce continuamente ad alimentare con le sue interazioni al limite dell'ossessivo. Ecco dunque l'apoteosi del multitasking affettivo, dell'auto-gratificazione compulsiva attraverso stimoli che in fin dei conti semplificano, “pillolizzano” il piacere. Non vorrei apparire blasfemo nel ricordare che è stato dimostrato sperimentalmente che dando a un ratto il modo di procurarsi piacere con delle somministrazioni di stimolatori chimici del piacere attivate da una levetta, il povero ratto muore di fame perché continua ininterrottamente ad azionare la levetta in un loop di libidine senza fine (anzi, con una ben drammatica fine!). Il neuroscienziato tedesco Manfred Spitzer la chiama digital dementia, e i richiami all'eccessiva superficialità di queste tipologie di contatti sociali risuonano ormai da molte parti.
Venendo alla nostra discussione, non è ancora chiaro e condiviso da tutti quanto e come questa “nuova capacità” dei ragazzi sia produttiva e quindi da supportare e sviluppare o invece da controllare. E, come abbiamo premesso all'inizio della discussione, non è chiaro se la “dementia” sta nell'usare male un senso (vogliamo chiamarlo multiattenzione?) che l'essere umano ha sempre posseduto, o se sono piuttosto le NT a promuoverne lo sviluppo, come sostiene Prensky.


Sono disponibile a considerare che la capacità di multitasking del cervello umano, l'abilità di passare rapidamente da un compito a un altro, sia innata, e che solo la sua stimolazione la renda più viva e riconoscibile nei comportamenti dei giovani. Ma anche facendo questa scommessa in un campo a me sconosciuto, quello del cognitivismo evolutivo, mi sento più vicino alle affermazioni del cognitivista Nicholas Carr che afferma (“The Shallows: What the Internet is doing to our brains?” - W. W. Norton & Company, 2010) che “il problema non è quello che fanno i ragazzi in rete, ma è la massa di stimolazioni e di informazioni che li invadono in ogni momento. Il nostro cervello cambia e prende forma nei primi venti anni di vita, per costruire quella circuiteria fondamentale che ci porteremo appresso per tutta la vita, ecco che questi comportamenti hanno effetti molto più forti sulle giovani generazioni”. Bingo. Come si può affannosamente rincorrere dei cervelli che con velocità mirabolanti si adattano ai cambiamenti in modo quasi etereo, informe, senza preoccuparsi appunto di “formare”, di localizzare, formalizzare e trasmettere alle nuove generazioni le caratteristiche del un nucleo più denso di abilità di base, di capacità dialettiche, di idee fondamentali del calcolo della “carrozzeria” di quel veicolo chiamato Uomo?
Jordan Grafman, neuroscienziato cognitivista presso l'Istituto di Sanità degli USA: “il multitasking mentale non esiste: gli esseri umani possono porre attenzione solo a una cosa per volta; al massimo possono switchare rapidamente fra vari task, ma a caro prezzo, perché il cambio di attività spesso ci costa più sforzo mentale dell'attività stessa. E' vero che così stiamo formando in nuovi cervelli a gestire più rapidamente attività differenti, ma è altresì vero che i processi mentali delegati al pensiero profondo e alle decisioni vengono via via sempre meno esercitati e quindi sviluppati”.

Solo paure e paranoie? Prensky, seppure dopo aver dovuto correggere alcune sue esagerazioni in seguito al prolifico dibattito seguito alle sue prime pubblicazioni, dice di si. In definitiva, Prensky ritiene di essere agli albori di una nuova Etica Digitale, nascente dall'inarrestabile potenziamento mentale permesso dalle macchine. Una nuova etica che in quanto tale sta riscrivendo le definizioni di Saggezza, Cultura, Stupidità, Intelligenza. Indubbiamente sembrerebbe la suggestione più ovvia: è scientificamente dimostrato dalle neuroscienze che qualunque evento che ci capita modifica strutturalmente (cioè fisicamente) il nostro cervello, instaurando nuove connessioni, creando corto-circuiti, variando la solidità e la priorità delle connessioni stesse. Dice lo psicologo Peter Etchells: “Qualunque neuroscienziato o psicologo sa che tutto, qualsiasi cosa modifica il nostro cervello, è la base del nostro apprendimento. Dire che usare Facebook sta modificando il nostro cervello non è interessante, né sconvolgente. Il punto è andare oltre questa argomentazione e chiederci invece cosa sta succedendo, e analizzarlo in positivo o in negativo”.

A dire il vero, a questa ammorbidita visione prenskyana, supportata dall'evidenza empirica che così semplicemente ci salta agli occhi raccontandoci questo splendido e Homo Digitalis dotato di una nuova e luccicante augmented mind che tutto vede, controlla e manipola grazie alle NT, a questo coro che si alza in supporto di qualunque cosa sia 2.0, o 3.0, a questa abdicazione quasi lasciva a un destino ritenuto ineffabile, ebbene un po' sono tentato di abbandonarmi anch'io, rispolverando un po' dell'ottimismo cyberpunk dei miei anni '90. In fin dei conti, sono parecchie - e comodamente condivisibili - le valutazioni positive di questa mutazione. Mizuko Ito, antropologa californiana: “I giovani devono adattarsi fin da subito a una realtà fatta di continue distrazioni, e quindi hanno autonomamente sviluppato strategie per conviverci”. Rebecca Eynon, ricercatrice all'Università di Oxford: “Stanno solo sviluppando le loro tecniche, tante nuove tecniche. Sanno bene cosa gli sta accadendo, (...) sono flessibili nell'adattare e mischiare insieme cose diverse per ottenere ciò di cui hanno bisogno”. Nicola Yuill, capo di un progetto di ricerca in campo psicologico sul rapporto fra tecnologia e adolescenti: “La gente si spaventa del fatto che i ragazzi sembrino dipendenti, tossici, che non riescano a evitare di distrarsi. Finiremo per imporre queste preoccupazioni ai ragazzi, quando essi in effetti stanno sviluppando opportune strategie”. Strategie? Flessibilità? Stiamo parlando di ragazzi o di operai?
Ancora, Jonathan Grudin, Microsoft Research: “Le capacità essenziali nel 2020 saranno la capacità di ricercare rapidamente, sfogliare, definire il livello qualitativo di grandi masse di informazioni, e sintetizzarle per poi processarle in tempi rapidi”. Prensky, per tornare a parlare di scuola: “i docenti dovrebbero imparare a comunicare nel linguaggio, nei modi e nello stile dei loro studenti, acquisire un ritmo più veloce, fare uso di più argomentazioni, adottare il linguaggio dei videoclip e della pubblicità, quando non addirittura del videogioco”. Eh no! Ma sarà mica il caso di preparare questi ragazzi a qualcos'altro o quantomeno anche a qualcos'altro, oltre ad affrontare - essenzialmente - le nuove modalità di produzione?


Ripeto ancora che non mi sogno neanche lontanamente di limitare, stoppare o arginare queste storiche trasformazioni antropologiche, ma alcune cose sono evidenti, e non trascurabili: più tasks si hanno aperti, più (lo insegna l’informatica) le operazioni dovranno essere semplici, poco impegnative e senza spazio per gli approfondimenti. Si parla di questo, e non di aver paura di chissà quali strane malattie che affliggerebbero i nativi; si parla della preoccupazione politica di chi nota che i ragazzi hanno sempre meno tempo, e meno allenamento mentale, per poter affrontare un testo lungo, una lettura impegnativa. Senza voler per forza affermare che questo sta creando scompiglio o tragedia, sventolando a tutti i costi la supremazia di un filmato di YouTube sull’Ulisse di Joyce mi limito a sottolineare che la Scuola così facendo mutua dalla Società i suoi peggiori malversamenti: dopo aver ascoltato – senza peraltro prendere granché provvedimento – le urla di lamento delle donne del nostro tempo, che più di chiunque altro stanno pagando il dazio alla modernità con un processo di spersonalizzazione e di de-sensibilizzazione che sta modificando radicalmente i ritmi di vita delle mamme e delle casalinghe per colpa dei ritmi insensati di vita sociale e di lavoro, vogliamo forse costruire lo stesso dramma per i nostri ragazzi?


E' così evidente il tipo di umanità di cui ha bisogno il mondo produttivo da risultare quasi imbarazzante nelle parole di Grudin: “L'abilità di saper leggere un testo e ragionare intensamente su esso per ore non sarà dunque del tutto inutile, ma avrà molto meno importanza per alcuni che per altri”. Ma va'? Quindi tutta la storiella sull'incremento delle intelligenze e delle capacità, il sogno di democratizzazione e di estensione delle potenzialità umane, del miglioramento della qualità di vita e del livello culturale delle persone, della loro capacità di interagire con il mondo che le circonda...? Tutte storie, appunto. Ciò che preme a lor signori è che il più rapidamente possibile si impari a coesistere col nuovo mondo, che si sviluppino strategie mirate a conciliare - ancora di più! - la propria vita essenzialmente umana con quella sociale/lavorativa/attiva. Bisognerebbe invece lavorare perché le NT portino il libro a tutti, e non solo a quelli che - da strati più alti - manterranno la necessità di approfondire e meditare un testo. Bisogna in ogni modo cercare di “mettere in pausa” questa nostra corsa impazzita verso un progresso irriconoscibile e irriconosciuto, per attendere quelli che sono rimasti indietro e cercare di riprendere un cammino comune. E' esattamente come continuare a concentrare immani sforzi sull'innovazione - ad esempio - dei lettori mp3, preoccupandosi poco o nulla della scarsissima qualità musicale che con quei lettori viene spacciata.


Per riprendere l'esempio di Grudin, si da' per scontato che le differenze fra gli accessi e fra i livelli di estensione mentale resteranno, anzi implicitamente le si proietta anche come maggiori di oggi. E dunque come ci si prepara per affrontarle (sfruttarle?) al meglio. Un'istruzione a scopo, un'educazione che, di fronte al suo fallimento, non può far altro che prendere la faccia di un videogioco per sperare di ingannare - cerebralmente - gli alunni e fargli digerire le abilità ritenute fondamentali. Una sorta di continua caserma di addestramento, per affrontare le sfide sempre più terribili che la società ci pone di fronte e le richieste sempre più inesigibili, tanto è vero che le svolgerà una macchina, e non un essere umano! Una scuola dunque sempre più asservita e piegata alla funzione di mera produttrice di classi lavoratrici, e non già una Scuola che risponda prima alle domande perché? e cosa?, invece che rispondere sempre alla domanda come?.


Paolo Maria Ferri, docente presso l’Università Bicocca di Milano e noto osservatore del mondo dei Nativi Digitali: ”Lo stesso Howard Gardner, grande studioso dell’intelligenza e teorico delle intelligenze multiple, in un  paper del 2003 ipotizza l’esistenza di questo tipo di intelligenza tecnologica (Gardner, 2003).” Ok, ma vorrei solo poter continuare a insegnare ai ragazzi cosa è un Uomo, non è mica detto che si debbano formare e istruire solo piloti d’aereo con super-intelligenze spazio-visuali e super-aumentate; lo stesso Gardner, qui tirato un po’ troppo per la giacchetta da Ferri,ha sempre sottolineato nella sua teorizzazione delle Intelligenze Multiple, che le Intelligenze sono equivalenti, e equi-importanti. Quindi se l’incremento, l’augmentazione è davvero possibile, resterebbe da capire in che modo le NT aiutano tutte le altre intelligenze elencate da Gardner (intrapersonale, interpersonale, deduttiva, ecc…). Sta nascendo una nuova Intelligenza Digitale? Benissimo. Possiamo valutarla insieme alle altre evitando di cestinarle perché obsolete e quindi selezionare i migliori in ogni Intelligenza, no?