martedì 29 dicembre 2015

Manifesto


Il direttore della fotografia del film premio Oscar «La grande bellezza», Luca Bigazzi, ha affermato in un’intervista che grazie all’avvento delle nuove tecnologie digitali non è più necessario portarsi appresso il fardello degli insegnamenti dei grandi del passato. Anzi egli stesso ammette di non aver studiato da fotografo e forse per questo, visti i suoi risultati personali, non crede che lo studio sarebbe servito a granché, perché lui stesso è arrivato al successo grazie alla conoscenza (in fin dei conti sommaria, non accademica) di molte discipline apparentemente diverse. Dunque in uno scenario in cui le discipline si moltiplicano e si complicano esponenzialmente, la professione dell’insegnante si semplifica, si svaporizza, diventa addirittura ingombrante? Interessante, ma personalmente lo trovo spaventoso. Cercherò di spiegare perché non sono ottimista di fronte alle immagini proiettate dall’intervista di Bigazzi, e perché credo sia il caso non dico di frenare ma quantomeno di gettare lo sguardo solo un attimo fuori dal finestrino in questa nostra folle corsa sul treno del fantomatico “progresso”.


La parola “scuola” fa venire in mente ad ognuno di noi una cosa diversa: gioventù, educazione, amici, tragedia, pomeriggi di paure, preoccupazioni, spensieratezza, insegnanti indimenticabili, insegnanti detestabili, successo, fallimento, speranza… tutto e il contrario di tutto. È da qui che vorrei partire, dall’indefinibilità di un’istituzione che è così diversa da tutte le altre.
La scuola è diversa perché nella società in cui agisce non dirige, né decide. Non gestisce la società, e in qualche modo non la subisce, anzi la scuola viene gestita sempre con immensa difficoltà, in qualche modo la resilienza è sempre troppo forte, la scuola italiana in questo senso è una sorta di grande autocrazia. La scuola non migliora, né peggiora la società. Semplicemente la scuola non interagisce veramente con la società che la ospita, bensì ne è una componente talmente intima, strutturale, che ne mutua vita e morte, ascesa e declino, ne condivide trasformazioni e traumi, vi si specchia quotidianamente eppure prende continuamente le distanze da quell’immagine riflessa, muovendosi in qualche modo sempre in modo “proattivo”, autoadattandosi all’immagine in una schizofrenia senza fine.
Intendo sostenere che non è distinguibile la società dalla scuola, anzi “una” società dalla “sua” scuola. Partendo da questo assunto, nessuna analisi del mondo scolastico può prescindere, o può evitare di giungere a una analoga e “riflessa” analisi del costrutto sociale che la sovrastruttura. Ecco perché i miei ragionamenti intendono “viaggiare verso il centro” del tema, ricercando, e sicuramente inseguendo ciò che della scuola resta immutabile da società a società, una sorta di categoria aristotelica. Chi mi conosce sa che sono un tecno-entusiasta, un ostinato e invecchiato cyberpunk che fa della tecnologia uno dei suoi nervi vitali, sempre in sviluppo. Eppure, qui voglio remare contro la mia stessa formazione, voglio riscattare la mia professione di insegnante in modo quasi irritante, come se me ne approfittassi. Affermo: che senso ha cercare di adattare la scuola (italiana) in una corsa all’informatizzazione, al 2.0, al 3.0, al tablet e a Internet, modificando continuamente “in corsa” i metodi educativi, inseguendo tecnologie continuamente cangianti, sempre e perennemente in ritardo rispetto alla generazione degli studenti? Questo è il terzo millennio, da ora in poi qualsiasi nuova generazione sarà superiore alla precedente per tutto ciò che riguarda le capacità di utilizzo delle (sempre più) nuove tecnologie.
L’era dei nativi digitali ha formalizzato una volta per tutta una specie di “legge di Moore”: a partire dagli anni ’90 le tecnologie non perderanno mai più l’aggettivo “nuove”, e in ogni generazione futura i più giovani ne sapranno sempre di più dei più vecchi, a causa della iperbolica curva di accelerazione che ha intrapreso il progresso tecnologico (oppure qualcuno di voi pensa che quest’accelerazione un giorno si fermerà?, ipotesi assolutamente interessante che però meriterebbe da sola un’intera trattazione).
In questo scenario, cosa resta della Scuola con la “S” maiuscola, del suo noumeno? Con le premesse che ho dato all’inizio, è possibile pensare che la missione della Scuola sia semplicemente di innovarsi così come le calcolatrici, le lavatrici o i trasporti pubblici? Cosa è davvero da innovare nella Scuola? Che senso ha l’aggettivo “moderno” posto affianco ai sostantivi pesanti della Scuola, cioè “insegnante”, “disciplina”, “classe”, edificio”, “cultura”. E cos’è “cultura” nell’era dei Nativi Digitali?


Dunque in questa complicata manovra luddista (per me che sono ri-nato nel cybermondo all’età di 16 anni grazie a un modem a 1200bps) la provocazione e la visione laterale mi accompagneranno a ogni rigo, iniziando da un titolo-provocazione che i miei amatissimi alunni dell’Istituto Professionale in cui insegno Matematica (e i loro genitori!) mi perdoneranno: Bimbiminkia, cioè generazione di ignavi, di “rincoglioniti digitali”. È questo il modulo con cui oggi si inquadrano quei ragazzi che (agli occhi dei più anziani) appaiono completamente imbambolati in un mondo di telefonini, social network e interazioni virtuali. Ma “bimbiminkia” è anche un termine che oggi viene usato dagli stessi ragazzi per contraddistinguere quelli fra loro più “innocentemente stupidi”, forse tecnologicamente più passivi, persi nel web dietro all’ultima star della canzone, convinti che Internet inizi e finisca essenzialmente nella loro pagina Facebook. In questo caso il termine, usato fra coetanei, diventa una riedizione dell’offesa “nerd” ma al contrario, condotta stavolta proprio dagli ex-nerd che forse si sono visti “sorpassati a destra” sulla loro stessa corsia, quella dell’immersione totale, l’immedesimazione e la partecipazione compulsiva e totalizzante a uno scenario immaginifico e collettivo, cioè proprio uno degli innumerevoli immaginari già pronti a migliaia, disponibili online per i ragazzi degli anni ‘10.

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