Il
direttore della fotografia del film premio Oscar «La grande
bellezza», Luca Bigazzi, ha affermato in un’intervista che grazie
all’avvento delle nuove tecnologie digitali non è più necessario
portarsi appresso il fardello degli insegnamenti dei grandi del
passato. Anzi egli stesso ammette di non aver studiato da fotografo e
forse per questo, visti i suoi risultati personali, non crede che lo
studio sarebbe servito a granché, perché lui stesso è arrivato al
successo grazie alla conoscenza (in fin dei conti sommaria, non
accademica) di molte discipline apparentemente diverse. Dunque in uno
scenario in cui le discipline si moltiplicano e si complicano
esponenzialmente, la professione dell’insegnante si semplifica, si
svaporizza, diventa addirittura ingombrante? Interessante, ma
personalmente lo trovo spaventoso. Cercherò di spiegare perché non
sono ottimista di fronte alle immagini proiettate dall’intervista
di Bigazzi, e perché credo sia il caso non dico di frenare ma
quantomeno di gettare lo sguardo solo un attimo fuori dal finestrino
in questa nostra folle corsa sul treno del fantomatico “progresso”.
La
parola “scuola” fa venire in mente ad ognuno di noi una cosa
diversa: gioventù, educazione, amici, tragedia, pomeriggi di paure,
preoccupazioni, spensieratezza, insegnanti indimenticabili,
insegnanti detestabili, successo, fallimento, speranza… tutto e il
contrario di tutto. È da qui che vorrei partire, dall’indefinibilità
di un’istituzione che è così diversa da tutte le altre.
La
scuola è diversa perché nella società in cui agisce non dirige, né
decide. Non gestisce la società, e in qualche modo non la subisce,
anzi la scuola viene gestita sempre con immensa difficoltà, in
qualche modo la resilienza è sempre troppo forte, la scuola italiana
in questo senso è una sorta di grande autocrazia. La scuola non
migliora, né peggiora la società. Semplicemente la scuola non
interagisce veramente con la società che la ospita, bensì ne è una
componente talmente intima, strutturale, che ne mutua vita e morte,
ascesa e declino, ne condivide trasformazioni e traumi, vi si
specchia quotidianamente eppure prende continuamente le distanze da
quell’immagine riflessa, muovendosi in qualche modo sempre in modo
“proattivo”, autoadattandosi all’immagine in una schizofrenia
senza fine.
Intendo
sostenere che non è distinguibile la società dalla scuola, anzi
“una” società dalla “sua” scuola. Partendo da questo
assunto, nessuna analisi del mondo scolastico può prescindere, o può
evitare di giungere a una analoga e “riflessa” analisi del
costrutto sociale che la sovrastruttura. Ecco perché i miei
ragionamenti intendono “viaggiare verso il centro” del tema,
ricercando, e sicuramente inseguendo ciò che della scuola resta
immutabile da società a società, una sorta di categoria
aristotelica. Chi mi conosce sa che sono un tecno-entusiasta, un
ostinato e invecchiato cyberpunk che fa della tecnologia uno dei suoi
nervi vitali, sempre in sviluppo. Eppure, qui voglio remare contro la
mia stessa formazione, voglio riscattare la mia professione di
insegnante in modo quasi irritante, come se me ne approfittassi.
Affermo: che senso ha cercare di adattare la scuola (italiana) in una
corsa all’informatizzazione, al 2.0, al 3.0, al tablet e a
Internet, modificando continuamente “in corsa” i metodi
educativi, inseguendo tecnologie continuamente cangianti, sempre e
perennemente in ritardo rispetto alla generazione degli studenti?
Questo è il terzo millennio, da ora in poi qualsiasi nuova
generazione sarà superiore alla precedente per tutto ciò che
riguarda le capacità di utilizzo delle (sempre più) nuove
tecnologie.
L’era
dei nativi digitali ha formalizzato una volta per tutta una specie di
“legge di Moore”: a partire dagli anni ’90 le tecnologie non
perderanno mai più l’aggettivo “nuove”, e in ogni generazione
futura i più giovani ne sapranno sempre di più dei più vecchi, a
causa della iperbolica curva di accelerazione che ha intrapreso il
progresso tecnologico (oppure qualcuno di voi pensa che
quest’accelerazione un giorno si fermerà?, ipotesi assolutamente
interessante che però meriterebbe da sola un’intera trattazione).
In
questo scenario, cosa resta della Scuola con la “S” maiuscola,
del suo noumeno? Con le premesse che ho dato all’inizio, è
possibile pensare che la missione della Scuola sia semplicemente di
innovarsi così come le calcolatrici, le lavatrici o i trasporti
pubblici? Cosa è davvero da innovare nella Scuola? Che senso ha
l’aggettivo “moderno” posto affianco ai sostantivi pesanti
della Scuola, cioè “insegnante”, “disciplina”, “classe”,
edificio”, “cultura”. E cos’è “cultura” nell’era dei
Nativi Digitali?
Dunque
in questa complicata manovra luddista (per me che sono ri-nato nel
cybermondo all’età di 16 anni grazie a un modem a 1200bps) la
provocazione e la visione laterale mi accompagneranno a ogni rigo,
iniziando da un titolo-provocazione che i miei amatissimi alunni
dell’Istituto Professionale in cui insegno Matematica (e i loro
genitori!) mi perdoneranno: Bimbiminkia, cioè generazione di ignavi,
di “rincoglioniti digitali”. È questo il modulo con cui oggi si
inquadrano quei ragazzi che (agli occhi dei più anziani) appaiono
completamente imbambolati in un mondo di telefonini, social network e
interazioni virtuali. Ma “bimbiminkia” è anche un termine che
oggi viene usato dagli stessi ragazzi per contraddistinguere quelli
fra loro più “innocentemente stupidi”, forse tecnologicamente
più passivi, persi nel web dietro all’ultima star della canzone,
convinti che Internet inizi e finisca essenzialmente nella loro
pagina Facebook. In questo caso il termine, usato fra coetanei,
diventa una riedizione dell’offesa “nerd” ma al contrario,
condotta stavolta proprio dagli ex-nerd che forse si sono visti
“sorpassati a destra” sulla loro stessa corsia, quella
dell’immersione totale, l’immedesimazione e la partecipazione
compulsiva e totalizzante a uno scenario immaginifico e collettivo,
cioè proprio uno degli innumerevoli immaginari già pronti a
migliaia, disponibili online per i ragazzi degli anni ‘10.
Nessun commento:
Posta un commento