Per
avviarmi
a una conclusione,
vorrei ricordare che un uomo nuovo serve a poco senza un mondo nuovo.
Ricordo con molto affetto mio padre che mi comprò – senza averne
alcuna idea – un piccolo Vic20
nel 1983, consegnandomi in quel momento la chiave d’oro che avrebbe
accompagnato ogni mio impiego, ogni mia attività da quel lontano
1983. Ciononostante, la cronica sindrome nefrosica che
mi astia da una decina di anni è
stata probabilmente causata anche da un ritmo di vita in
gioventù molto
poco “tradizionale”, preferendo spesso il computer alla partita
di pallone, o un libro a una passeggiata con gli amici. Sono per
questo diventato migliore? O peggiore? Che opportunità ho perso, e
quali invece mi sono state offerte su un piatto d’argento?
Proverò
ad essere ancora più chiaro: la mia preoccupazione sulla prossima
generazione di “iperconnessi” è cosa
si connettono a fare?
Non mi interessa assolutamente la disumanizzazione in termini di
rapporto mediatico, o la spersonalizzazione dovuta all’eccessiva
liquidità del social-space. Non sono terrorizzato dal fatto che le
macchine possano soppiantare l’uomo, né che un giorno si
possano ribellare straziando le carni dell’umano oppressore. Non mi
fa orrore (come invece atterrisce mia madre!)
l’idea di ordinare una pizza e vedersela recapitare da un drone,
magari mentre sto sdraiato venti ore al giorno in una sorta di Cocoon
dal quale posso lavorare, divertirmi, interagire col mondo, comandare
un’astronave, tutto senza muovere più di due-tre muscoli,
trasformandomi in quello che probabilmente sarà l’uomo del XXII
secolo, obeso, muscolarmente inetto, iperconnesso in qualsiasi
momento, potenzialmente ubiquo, probabilmente molto spesso annoiato,
più di oggi.
A
me preoccupa che con tanta comodità e tecnologia, quell’Uomo2.0
spenda qualche minuto - più di oggi! - ad occuparsi dei suoi simili,
o della condizione della natura che lo circonda, o dei problemi dei
più deboli. Che attraverso tanti collegamenti quell’Uomo2.0 sia
più informato di oggi, meno passivo rispetto alla massificazione
dell’informazione, più attento e più critico, magari più incline
alla solidarietà e alla pace che alla contrapposizione e alla
guerra, più attento alla vita sociale e politica, e magari in grado
di apportare qualcosa in più al dibattito sociale di quanto accada
oggi. Ecco perché rifuggo le visioni di Prensky o di Jenkins, e non
vedo nessun vantaggio per l’Umanità, mentre ne vedo tanti per
l’Economia, nel fatto che i ragazzi di oggi acquisiscano tante
belle nuove abilità e capacità di cui però nessuna sembra far rima
con “solidarietà”, “sostenibilità”, “profondità”.
Propongo
qui un interessantissimo quanto drammatico passaggio di Arturo
Marcello Allega in “Analfabetismo: il punto di non ritorno”
(Herald Ed. 2011), sull’effettiva portata del fenomeno in termini
di alfabetismo e di istruzione:
Considerando
la popolazione “non istruita” o “dealfabetizzata” come
costituita da tutti coloro che non hanno completato l’obbligo
scolastico (fissato entro il 16° anno di età) o che nel tempo hanno
perso la propria istruzione sostanziale a causa delle diverse forme
di analfabetismo di ritorno, calcoliamo la velocità di crescita di
questa popolazione rispetto a quella degli “istruiti”, dal 1951
ai nostri giorni. I dati mostrano che i “non istruiti” crescono
con una velocità sempre più elevata mentre gli “istruiti”
crescono fino al 2001, dove invertono la loro velocità. Nel 2006 i
“non istruiti” superano gli “istruiti” e i numeri lasciano
sperare ben poco per questi ultimi.
(…)
i dati OCSE puliti, cioè senza filtro alcuno, portavano a un 47% di
“non istruiti” e al 57% degli “istruiti” nel 2011. Con il
filtro prodotto dal processo di dealfabetizzazione, abbiamo visto
nell’articolo “Darwin, Pareto e i dati Ocse sull’istruzione”
che nel 2011 i dati si stabilizzano intorno al 66% per i primi e al
34% per i secondi, come già annunciato da Tullio De Mauro in diverse
proiezioni anticipate in interviste sull’argomento. Con il calcolo
delle velocità qui riportato, lo scenario di Pareto sembra scontato
e inevitabile: i “non istruiti” tenderanno nel prossimo futuro
all’80% e gli “istruiti” al 20%. (…) assistiamo alla comparsa
di un punto di non ritorno, oltre il quale la popolazione dei “non
istruiti” è destinata a costituire la maggioranza assoluta della
popolazione. Positivo? Negativo? La destrutturazione dei linguaggi
storici è involuzione? La moltiplicazione delle diversità (anche
dei linguaggi) è foriera di innovazione, di ricchezza culturale o
l’avvio di una nuova Babele? Gli “istruiti” saranno i nuovi
esclusi, i nuovi dropped out?
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