Paola
entra nel mio ufficio con in mano una pila di libri di matematica,
che già da qui vedo praticamente intonsi, sebbene sia ormai Aprile.
Sua madre, mia fraterna amica, mi ha pregato di darle una mano per
cercare di evitare una bocciatura ormai quasi scontata. Non ha ancora
posato i libri che avvolge col braccio sinistro, che con la mano
destra sguaina un cellulare da 5 pollici che cinguetta di notifiche -
che evidentemente non possono aspettare - e risponde a razzo a un
paio di richieste e di messaggi, probabilmente inerenti la fine del
mondo, o altro tema di pari importanza. Mi saluta, ma mi devo far
bastare una manciata di decimi di secondo di sguardi, perché gli
altri sono destinati al «cellu». A dire la verità, pur utilizzando
il T9 su un touchscreen a velocità stratosferica, riesce a
completare alcune parole anche senza guardare, dato che si è accorta
che un minimo di attenzione mi spetta. Questo continua anche quando
iniziamo a parlare di Matematica, per cui dopo pochi minuti sono
costretto al solito editto bulgaro da
immigrato digitale:
«via il cellulare per favore!».
Su
questo punto noi “immigrati“ digitali siamo assolutamente
perdenti, noi che prendevamo le bacchettate dalla maestra. Non
riusciamo minimamente a immaginare come si possa “porre attenzione“
a una cosa mentre se ne fa un'altra, per giunta coinvolgente come la
messaggistica online. Ne facciamo un punto di educazione civica,
consideriamo irrispettoso rivolgersi a una persona distrattamente
mentre si dialoga (in questo caso virtualmente) con un'altra, o con
dieci altre. E inoltre siamo convinti, noi immigrati, che non si
potrà mai approfondire bene una delle conversazioni, perché sarà
obbligatorio mantenere una certa «superficialità» se si vuole
restare vigili su ognuno dei «task», siano esse conversazioni, o
giochi, o programmi di studio o lavoro. Ebbene posso affermare con
assoluta certezza che non c'è nessuna speranza di ovviare a questo
problema, perché l'iperstimolazione, a detta degli stessi
adolescenti intervistati, è intossicante:
“Ti senti alla grande, sei sempre al centro dell'attenzione” dice
un quindicenne agli autori di Digital
Youth: the role of Media in Development (Springer,
2011).
L'accoppiata
è perfetta: un adolescente che richiede continua stimolazione,
meglio se più stimolazioni che si sommano e si alternano in
parallelo, e la tecnologia corre sempre più onnivora verso il
calcolo e la gestione parallela dei task, laddove il singolo task è
quel thread infinito che, appunto, un adolescente in crescita riesce
continuamente ad alimentare con le sue interazioni al limite
dell'ossessivo. Ecco dunque l'apoteosi del multitasking
affettivo,
dell'auto-gratificazione compulsiva attraverso stimoli che in fin dei
conti semplificano, “pillolizzano” il piacere. Non vorrei
apparire blasfemo nel ricordare che è stato dimostrato
sperimentalmente che dando a un ratto il modo di procurarsi piacere
con delle somministrazioni di stimolatori chimici del piacere
attivate da una levetta, il povero ratto muore di fame perché
continua ininterrottamente ad azionare la levetta in un loop di
libidine senza fine (anzi, con una ben drammatica fine!). Il
neuroscienziato tedesco Manfred Spitzer la chiama digital
dementia,
e
i richiami
all'eccessiva superficialità di queste tipologie di contatti sociali
risuonano ormai
da
molte parti.
Venendo
alla nostra discussione, non è ancora chiaro e condiviso da tutti
quanto e come questa “nuova capacità” dei ragazzi sia produttiva
e quindi da supportare e sviluppare o invece da controllare. E, come
abbiamo premesso all'inizio della discussione, non è chiaro se la
“dementia” sta nell'usare male un senso (vogliamo chiamarlo
multiattenzione?)
che l'essere umano ha sempre posseduto, o se sono piuttosto le NT a
promuoverne lo sviluppo, come sostiene Prensky.
Sono
disponibile a considerare che la capacità di multitasking del
cervello umano, l'abilità di passare rapidamente da un compito a un
altro, sia innata, e che solo la sua stimolazione la renda più viva
e riconoscibile nei comportamenti dei giovani. Ma anche facendo
questa scommessa in un campo a me sconosciuto, quello del
cognitivismo evolutivo, mi sento più vicino alle affermazioni del
cognitivista Nicholas Carr che afferma (“The
Shallows: What
the Internet is doing to our brains?” - W.
W. Norton & Company, 2010)
che “il problema non è quello che fanno i ragazzi in rete, ma è
la massa di stimolazioni e di informazioni che li invadono in ogni
momento. Il nostro cervello cambia e prende forma nei primi venti
anni di vita, per costruire quella circuiteria fondamentale che ci
porteremo appresso per tutta la vita, ecco che questi comportamenti
hanno effetti molto più forti sulle giovani generazioni”. Bingo.
Come
si può affannosamente rincorrere dei cervelli che con velocità
mirabolanti si adattano ai cambiamenti in modo quasi etereo, informe,
senza preoccuparsi appunto di “formare”, di localizzare,
formalizzare e trasmettere alle nuove generazioni le caratteristiche
del un nucleo più denso di abilità di base, di capacità
dialettiche, di idee fondamentali del calcolo della “carrozzeria”
di quel veicolo chiamato Uomo?
Jordan
Grafman, neuroscienziato cognitivista presso l'Istituto di Sanità
degli USA: “il multitasking mentale non esiste: gli esseri umani
possono porre attenzione solo a una cosa per volta; al massimo
possono switchare rapidamente fra vari task, ma a caro prezzo, perché
il cambio di attività spesso ci costa più sforzo mentale
dell'attività stessa. E' vero che così stiamo formando in nuovi
cervelli a gestire più rapidamente attività differenti, ma è
altresì vero che i processi mentali delegati al pensiero profondo e
alle decisioni vengono via via sempre meno esercitati e quindi
sviluppati”.
Solo
paure e paranoie? Prensky, seppure dopo aver dovuto correggere alcune
sue esagerazioni in seguito al prolifico dibattito seguito alle sue
prime pubblicazioni, dice di si. In definitiva, Prensky ritiene di
essere agli albori di una nuova Etica Digitale, nascente
dall'inarrestabile potenziamento mentale permesso dalle macchine. Una
nuova etica
che in quanto tale sta riscrivendo le definizioni di Saggezza,
Cultura, Stupidità, Intelligenza. Indubbiamente sembrerebbe la
suggestione più ovvia: è scientificamente dimostrato dalle
neuroscienze che qualunque evento che ci capita modifica
strutturalmente (cioè fisicamente) il nostro cervello, instaurando
nuove connessioni, creando corto-circuiti, variando la solidità e la
priorità delle connessioni stesse. Dice lo psicologo Peter Etchells:
“Qualunque neuroscienziato o psicologo sa che tutto, qualsiasi cosa
modifica il nostro cervello, è la base del nostro apprendimento.
Dire che usare Facebook sta modificando il nostro cervello non è
interessante, né sconvolgente. Il punto è andare oltre questa
argomentazione e chiederci invece cosa sta succedendo, e analizzarlo
in positivo o in negativo”.
A
dire il vero, a questa ammorbidita visione prenskyana, supportata
dall'evidenza empirica che così semplicemente ci salta agli occhi
raccontandoci questo splendido e Homo Digitalis dotato di una nuova e
luccicante augmented
mind
che tutto vede, controlla e manipola grazie alle NT, a questo coro
che si alza in supporto di qualunque cosa sia 2.0, o 3.0, a questa
abdicazione quasi lasciva a un destino ritenuto ineffabile, ebbene un
po' sono tentato di abbandonarmi anch'io, rispolverando un po'
dell'ottimismo cyberpunk dei miei anni '90. In fin dei conti, sono
parecchie - e comodamente condivisibili - le valutazioni positive di
questa mutazione. Mizuko Ito, antropologa californiana: “I giovani
devono adattarsi fin da subito a una realtà fatta di continue
distrazioni, e quindi hanno autonomamente sviluppato strategie
per conviverci”. Rebecca Eynon, ricercatrice all'Università di
Oxford: “Stanno solo sviluppando le loro tecniche,
tante nuove tecniche. Sanno bene cosa gli sta accadendo, (...)
sono flessibili
nell'adattare e mischiare insieme cose diverse per ottenere ciò di
cui hanno bisogno”. Nicola Yuill, capo di un progetto di ricerca in
campo psicologico sul rapporto fra tecnologia e adolescenti: “La
gente si spaventa del fatto che i ragazzi sembrino dipendenti,
tossici, che non riescano a evitare di distrarsi. Finiremo per
imporre queste preoccupazioni ai ragazzi, quando essi in effetti
stanno sviluppando opportune strategie”.
Strategie? Flessibilità? Stiamo parlando di ragazzi o di operai?
Ancora,
Jonathan Grudin, Microsoft Research: “Le capacità essenziali nel
2020 saranno la capacità di ricercare rapidamente, sfogliare,
definire il livello qualitativo di grandi masse di informazioni, e
sintetizzarle per poi processarle in tempi rapidi”. Prensky, per
tornare a parlare di scuola: “i docenti dovrebbero imparare a
comunicare nel linguaggio, nei modi e nello stile dei loro studenti,
acquisire un ritmo più veloce, fare uso di più argomentazioni,
adottare il linguaggio dei videoclip e della pubblicità, quando non
addirittura del videogioco”. Eh no! Ma sarà mica il caso di
preparare questi ragazzi a qualcos'altro o quantomeno anche
a qualcos'altro, oltre ad affrontare - essenzialmente - le nuove
modalità di produzione?
Ripeto
ancora che non mi sogno neanche lontanamente di limitare, stoppare o
arginare queste storiche trasformazioni antropologiche, ma alcune
cose sono evidenti, e non trascurabili: più
tasks
si hanno aperti, più (lo insegna l’informatica) le operazioni
dovranno essere semplici, poco impegnative e senza spazio per gli
approfondimenti. Si parla di questo, e non di aver
paura di chissà quali strane
malattie che affliggerebbero i nativi; si parla della
preoccupazione politica
di
chi
nota che i ragazzi hanno sempre meno
tempo, e meno allenamento mentale, per poter affrontare un testo
lungo, una lettura impegnativa. Senza voler per forza affermare che
questo sta creando scompiglio o tragedia, sventolando a tutti i costi
la supremazia di un filmato di YouTube sull’Ulisse di Joyce mi
limito a sottolineare che la Scuola così facendo mutua dalla Società
i suoi peggiori malversamenti: dopo
aver ascoltato – senza peraltro prendere granché provvedimento –
le urla di lamento delle donne del nostro tempo, che più di chiunque
altro stanno pagando il dazio alla modernità con un processo di
spersonalizzazione e di de-sensibilizzazione che sta modificando
radicalmente i ritmi di vita delle mamme e delle casalinghe per colpa
dei ritmi insensati di vita sociale e di lavoro, vogliamo forse
costruire lo stesso dramma per i nostri ragazzi?
E'
così evidente il tipo di umanità di cui ha bisogno il mondo
produttivo da risultare quasi imbarazzante nelle parole di Grudin:
“L'abilità di saper leggere un testo e ragionare intensamente su
esso per ore non sarà dunque del tutto inutile,
ma avrà molto meno importanza per alcuni che per altri”. Ma va'?
Quindi tutta la storiella sull'incremento delle intelligenze e delle
capacità, il sogno di democratizzazione e di estensione delle
potenzialità umane, del miglioramento della qualità di vita e del
livello culturale delle persone, della loro capacità di interagire
con il mondo che le circonda...? Tutte storie, appunto. Ciò che
preme
a lor signori
è che il più rapidamente possibile si impari a coesistere col nuovo
mondo, che si sviluppino strategie mirate a conciliare - ancora di
più! - la propria vita essenzialmente
umana
con quella sociale/lavorativa/attiva.
Bisognerebbe invece lavorare
perché le
NT portino
il
libro a tutti,
e non solo a quelli che - da strati più alti - manterranno la
necessità di approfondire e meditare un testo. Bisogna in ogni modo
cercare di “mettere in pausa” questa nostra corsa impazzita verso
un progresso irriconoscibile e irriconosciuto, per attendere quelli
che sono rimasti indietro e cercare di riprendere un cammino comune.
E' esattamente come continuare a concentrare immani sforzi
sull'innovazione - ad esempio - dei lettori mp3, preoccupandosi poco
o nulla della scarsissima qualità musicale che con quei lettori
viene spacciata.
Per
riprendere l'esempio di Grudin, si da' per scontato che le differenze
fra gli accessi e fra i livelli di estensione mentale resteranno,
anzi implicitamente le si proietta anche come maggiori di oggi. E
dunque come ci si prepara per affrontarle (sfruttarle?) al meglio.
Un'istruzione a scopo, un'educazione che, di fronte al suo
fallimento, non può far altro che prendere la faccia di un
videogioco per sperare di ingannare - cerebralmente - gli alunni e
fargli digerire le abilità
ritenute fondamentali.
Una sorta di continua caserma di addestramento, per affrontare le
sfide sempre più terribili che la società ci pone di fronte e le
richieste sempre più inesigibili, tanto è vero che le svolgerà una
macchina, e non un essere umano! Una scuola dunque sempre più
asservita e piegata alla funzione di mera produttrice di classi
lavoratrici, e non già una Scuola che risponda prima alle domande
perché?
e cosa?,
invece che rispondere sempre alla domanda come?.
Paolo
Maria Ferri, docente presso l’Università Bicocca di Milano e noto
osservatore del mondo dei Nativi Digitali: ”Lo
stesso Howard Gardner, grande studioso dell’intelligenza e teorico
delle intelligenze multiple, in un paper del
2003 ipotizza l’esistenza di questo tipo di intelligenza
tecnologica
(Gardner, 2003).” Ok, ma
vorrei
solo poter
continuare
a insegnare ai ragazzi cosa è un Uomo, non è mica detto che si
debbano formare e istruire solo piloti
d’aereo con super-intelligenze spazio-visuali e
super-aumentate;
lo stesso Gardner, qui tirato un po’ troppo per la giacchetta da
Ferri,ha sempre sottolineato nella sua teorizzazione delle
Intelligenze Multiple, che le Intelligenze sono equivalenti, e
equi-importanti. Quindi se l’incremento, l’augmentazione è
davvero possibile, resterebbe da capire in che modo le NT aiutano
tutte le altre intelligenze elencate da Gardner (intrapersonale,
interpersonale, deduttiva, ecc…). Sta nascendo una nuova
Intelligenza Digitale? Benissimo. Possiamo
valutarla insieme alle altre evitando
di cestinarle perché obsolete
e
quindi
selezionare
i migliori in ogni Intelligenza, no?